IL CONTE ADRIANO BENNICELLI di Livio Jannattoni

«Er conte Tacchia» era un popolare personaggio vissuto a cavallo dei secoli ventesimo e ventunesimo, nacque nel 1860 e se ne andò sessantacinque anni dopo nel 1925.  Il suo nome reale era Adriano, nacque nel rione Parione in un palazzo in piazza dell’Orogio di proprietà di suo padre Filippo Bennicelli facoltoso imprenditore nel settore del legname che grazie alle speciali benemerenze verso il pontefice Pio IX ottenne il titolo di conte per sé e per i suoi successori. Adriano fin da ragazzo ebbe un atteggiamento eccentrico, scanzonato e da gran signore, fu soprannominato «er conte Tacchia» a ragione del mestiere di famiglia, difatti a Roma il termine "tacchia" significa grossa scheggia di legno o la zeppa che tiene ferma la lama della pialla, Sempre elegantissimo, girava per Roma in carrozzella, pretendendo strada da tutti e dispensando a chi lo intralciava parolacce e scapaccioni. Divenne una figura allegorica della capitale umbertina tutta volta all‘apparenza e allo snobismo. Sempre pronto alla battuta ironica romanesca, per la sua costante allegria, franchezza e generosità fu molto amato dai romani.

Ecco un piacevole pezzo che scrisse il compianto giornalista scrittore romano Livio Jannattoni a proposito di Bennicelli.

Il conte Adriano Bennicelli aveva proprio tutto per piacere ai romani ed entrar loro nel sangue. Modi aristocratici e democraticissimo tratto, carattere insofferente ed eccentrico, natura generosa e lingua mordace che usava molto più il dialetto romanesco che la lingua italiana. Eppoi, qualità che lo contraddistinse, la fenomenale capacità nel guidare attacchi di cavalli a quattro, a sei, a otto. «Spesso» scrisse Giuseppe Petrai suo simpaticissimo contemporaneo  «Come al greco auriga, a lui, si tributavano pubblici applausi nel vederlo girare elegantemente attorno all'obelisco di Piazza del Popolo, o cacciarsi con disinvoltura tra la doppia fila di carrozze che andavano e venivano da Villa Borghese, e tirar poi di lungo per il Corso, schivando abilissimamente ruote e pedoni».  E lo applaudivano pure al ritorno dalla caccia alla volpe o nel corteo di carrozze che sfollava dalla Capannelle dopo le corse.

Con le cannonate della prima guerra mondiale, il simpatico conte scomparve, insieme alla bella epoca alla quale appartenne. Ma il nomignolo restò e resterà ancora per molto ad arricchire la fitta schiera di tipi originali e di caratteristiche «macchiette» che costituiscono il sottofondo ed insieme alimentano certa "romanità di ordine superiore": «er conte Tacchia» dove tacchia che in romanesco sta a significare grossa scheggia di legno o la zeppa che tiene ferma la lama della pialla, vuole riferirsi alle origini e alla fortuna dei Bennicelli. Capostipite un tal Filippo, vivente a Roma intorno al 1813 che ottenne per sè e per i suoi successori il titolo di conte.

Il passaggio del conte Adriano Bennicelli oltre a provocare autentici entusiasmi, riusciva anche a rompere la "umbertina serenità" di quella Roma tra i due secoli. È giunto sino a noi l'eco delle rumorose "pernacchie" che il nobile conducente e i pedoni-spettatori si scambiavano come affermazioni di principio o segno di incontenibile esultanza.

I «vetturini», invece, bestie nere del conte Tacchia, avevano qualcosa di peggio, ed anche qui bordate di invettive e di epiteti, condite di quelle care parolacce che conferiscono eccezionale forza e suggestione ai sonetti belliani.

I «pizzardoni», poi, come allora si chiamavano nella capitale i tutori dell'ordine pubblico, gli riuscivano addirittura intollerabili. E non poteva essere altrimenti a chi prendeva gusto a contravvenire a qualsiasi norma di circolazione stradale e nel non rispettare alcun divieto. Ma forse se ne dispiaceva anche lui, poichè l'animo si allargò alla speranza quando vide Delagrange volare in piazza D'armi:  «Me vojo fà l'aeroplano» confidò pieno d'entusiasmo ad un amico,  «Me lo dichi poi come faranno l pizzardoni a venimme appresso? E vojo puro vedè come farà er Sinnico a appiccicà per aria le scritte cò la "direzione vietata"!».

Nè le sue infrazioni erano esclusivamente di ordine stradale. Una burla atroce si riferisce infatti a quanto gli capitò, appiedato, in uno di quegli angoli della città che conservano ancora tutto il loro carattere solitario ed agreste. Ebbe bisogno di fare pipì e fu "beccato" dalla guardia. Con la distinzione che, specie in certe circostanze, gli era abituale, egli non replicò. Conciliò, pagò. Poi di punto in bianco si rivolse al pizzardone:  «E scusi, metta er caso che io ripetessi quel che ho fatto, pagherei di nuovo?». Il tutore dell'ordine restò di sasso, ripassò mentalmente tutti i regolamenti specifici in vigore, fino a poter rispondere quasi con assoluta sicurezza: «No, lei avrebbe già pagato». Non lo avesse mai detto, il viso del conte si aprì come se non aspettasse altro e gridò forte ad alcuni conoscenti che passavano in quel momento:  «Aoh! venite qui che tanto è già pagato!».

Tuttavia a dimostrare che non serbava rancore e che quanto faceva non doveva dimostrarsi come palese offesa ai regolamenti municipali, per il suo onomastico , 26 agosto, invitava a pranzo l'intera ufficialità dei  «pizzardoni» comandante in testa. E la pace era fatta, almeno per il momento.

Poi un vel giorno si fece il «macinino»  ossia una delle prime automobili che poterono ammirare i romani. Beniamino De Rita rievocherà: «Era una prima vettura senza cavalli, una misteriosa complicazione di leve , manovelle, tubi, serbatoio, catene, che, lasciando di sè fetore di petrolio, irrompeva a piazza del Popolo. Il mattacchione, smesso il monumentale tiro a sei che gli faceva da trono di burlesco re della strada e della "caciara" aveva adottato la vettura senza cavalli e, come un bambino gioioso di possedere un nuovo giocattolo, se ne serviva per dare la baia ai cocchieri e per far paura ai passanti. Fu un grande scompiglio e con esso il principio della fine del Corso e il prologo della tragedia della circolazione romana».

Giusto in tempo. Scoppiata la guerra, come dicevamo all'inizio, il conte Bennicelli dimostrando ancora una volta tutta la generosità del suo cuore ed insieme la sua moralità di cittadino che fa sul serio, si presentava al Macao e consegnava personalmente al comandante di quella caserma i suoi carisimi cavalli, gli splendidi animali che tutti i romani avevano amato e che tanto avevano contribuito ad animare la vita di una città ancora provinciale che si avviava a diventare metropoli.

Liberamente ispirato alla vita del conte Adriano Bennicelli, appunto detto "conte Tacchia". Il film si svolge con nomi di personaggi e fatti specifici immaginari.