ASSASSINIO ALLO STADIO OLIMPICO di Claudio Di Giampasquale
L'anno era il 1979, il mese ottobre, il giorno domenica 28. Correva la settantanovesima edizione del campionato di calcio Serie A, era la settima giornata. All'epoca la squadra vincente otteneva solo due punti. Dopo le prime sei l'Inter conduceva la classifica con dieci punti davanti al Milan un punto sotto, seguite dalla Juventus indietro di due. Le romane erano decisamente indietro, la Lazio di Bob Lovati a metà classifica con sei punti insieme a Napoli e Bologna, mentre la Roma di Nils Liedholm riversava in bassa classifica al quartultimo posto in compagnia di Avellino, Udinese e Fiorentina. La classifica dei marcatori invece vedeva al comando Bruno Giordano della Lazio e Paolo Rossi del Perugia con cinque goal, seguiti da Roberto Bettega della Juventus a quota quattro. Quella domenica, la settima giornata, alle ore quattordici e trenta allo Stadio Olimpico si giocava il centoundicesimo derby tra Roma e Lazio. Un biglietto di curva costava duemila e duecento lire.
Quella mattina felice in via Dronero
Vincenzo e Wanda abitavano in borgata Mazzalupo, nella zona Boccea, in una casetta costruita lontano dal centro, in via Dronero, in una periferia caratterizzata da un intenso abusivismo edilizio, che portò alla realizzazione di numerose costruzioni non autorizzate, un fenomeno che sarà gestito attraverso il primo condono edilizio del 1985 che permise di regolarizzare le opere abusive e fu seguito da altri condoni negli anni successivi.
Vincenzo Paparelli trentatre anni e Wanda Del Pinto ventinove, si conobbero da bambini e sin da subito s'innamorarono, presto si sposarono e misero su famiglia. Vennero al mondo due figli, Gabriele e Mauro. Vincenzo era un bravo meccanico, pochi anni addietro aprì insieme al fratello Angelo un'officina in via Cornelia a Montespaccato. I due fratelli Paparelli erano molto affiatati soprattutto nel lavoro. Condividevano una grande passione, il calcio con un grande tifo condito dagli sfottò sportivi tra di loro, perchè Angelo era della Roma, mentre Vincenzo tifava Lazio, quella Lazio che solo cinque anni prima gli aveva dato l'immensa soddisfazione del primo scudetto. Ma quella formazione ormai era solo un ricordo, soprattutto da quando il mitico Long John Giorgio Chinaglia se n'era andato via per trasferirsi negli Stati Uniti, al New York Cosmos, dopo una partita casalinga contro il Torino, con una fuga dall'Olimpico. Fu un grande dolore per Vincenzo. Tuttavia era nata la stella di un nuovo cannoniere, quel ragazzo di Trastevere che l'aveva sostituito. Bruno Giordano era un'altro fenomeno ed insieme all'altro gioiello del vivaio Lionello Manfredonia rappresentava il rinnovato orgoglio del popolo biancazzurro, considerando inoltre la presenza del capitano dello scudetto Giuseppe Wilson, della splendida ala destra Giuseppe Garlaschelli, dell'altro gioiello del vivaio Mauro Tassotti, e non solo. Ma anche il team della Roma non era da meno, benchè partita male, stava crescendo, gettando le fondamenta per lo scudetto che verrà tra meno di quattro anni: era tornato alla guida il barone Nils Liedholm e poi c'erano il bomber Roberto Pruzzo, un certo Bruno Conti, eppoi Carletto Ancelotti il gioiello venuto dal Parma, nonché «Kawasaki» Francesco Rocca il velocissimo terzino della Nazionale (purtroppo avversato continuamente dagli infortuni), il grande capitano Agostino Di Bartolomei, il leggendario Picchio De Sisti, eccetera. Insomma erano due squadre di grande spessore anche se purtroppo a fine stagione la Lazio retrocederà in serie B (insieme al Milan) a causa di sentenze legate allo scandalo delle scommesse calcistiche.
Ma torniamo a casa Paparelli. Era aria di derby, la Roma giocava in casa. Ebbene quella domenica, Angelo decise di dare la tessera dell'abbonamento in curva nord a suo fratello, perchè non amava stare in mezzo ai tifosi esagitati, perciò da romanista aveva preferito abbonarsi alla nord. E così Vincenzo non si fece scappare l'occasione ed insieme a Wanda organizzarono la festosa domenica di tifo. I bambini rimasero coi nonni e loro due in tarda mattinta, pranzo al sacco, si recarono felici in direzione dello stadio agghindati di sciarpa, beretto e bandiera biancoceleste. Giunti in curva nord si sedettero in attesa del fischio d'inizio.
ucciso da un razzo lanciato da una curva all'altra
"Commando Ultrà curva sud"
contro
"Eagles Supporters in curva nord"
erano i marchi delle opposte fazioni. Estranei ai riti di quel pittoresco tifo organizzato, fatto non solo di sfottò ma anche di pesanti ingiurie verso l'avversario, Wanda e Vincenzo sedevano tranquilli, osservando quello spettacolo, addentando i gustosi panini con la frittata portati da casa. Mancava solo un'ora al fischio d'inizio dell'arbitro Pietro D’Elia di Salerno. Erano ignari che a duecentocinquanta metri di distanza, in curva sud, un certo Giovanni Fiorillo, diciotto anni anni operaio disoccupato, precedenti per furto, ragazzo minuto e orecchino al lobo sinistro, soprannominato "Tzigano", adagiava sul travertino un tubo metallico. Alle tredici e trenta Giovanni mise dentro quel tubo un razzo cilindrico di tipo nautico, d'alluminio, privo di punta. Trenta centimetri di lunghezza per cinque di diametro, usato in mare aperto in caso d’emergenza. Assurdo pensare perchè stava facendo partire quell'oggetto in un viaggio di sola andata, senza ritorno. Fiorillo non scherzava. Il suo gioco divenne improvvisamente troppo pesante per esuberanti adolescenti. Tolto l’anellino della sicura, un fischio sibillino e una scia verde scura oltrepassarono la curva laziale. Dalla Sud un’ovazione e applausi da corrida, il primo finì addosso una collinetta. «Olè!!!!!». Non era finita. Ancora una scintilla, ancora un sibilo sordo. Il secondo ordigno viaggiò a ottanta chilometri orari. Parabola orizzontale, superò il tartan della pista d’atletica leggera, traiettoria spostata forse da una corrente d’aria. Zig-zag, il razzo volteggiò superando il rettangolo di gioco, da parte a parte, da curva a curva, finendo spedito sulla "nord", in direzione del primo boccaporto lato Tribuna Monte Mario, davanti l’ingresso numero cinquantasette. Quel maledetto missile andò a colpire in pieno il volto di Vincenzo Paparelli che s'accasciò sanguinante al suolo come con una ferita da guerra, colpito all’occhio sinistro, sommerso da una fontanella di sangue. Colpevole, chissà poi quanto, di trovarsi nel punto sbagliato al momento sbagliato. E pensare che s'erano anche spostati di fila per veder meglio il campo.
In un baleno dilagò il panico. La folla si precipitò verso le uscite mentre un altro razzo, scagliato dallo stesso punto oltrepassò addirittura il settore Sud, andando a finire su un albero fuori dello stadio.
Intanto accanto al povero Vincenzo era rimasta soltanto Wanda che gridava disperatamente, poverina s'ustionò una mano nel tentativo di togliere la morte dal volto del suo uomo. Al momento del violento impatto, dentro l'occhio del marito s'era accesa un’abbagliante luce rossa. Spinta da impulsivo coraggio e forza della disperazione, d’istinto Wanda riuscì a levargliene parte, un’altra gli rimane conficcata nell’orbita, nella testa ormai fumante. Trascorse qualche minuto prima che ci si rendesse conto della gravità dell'accaduto. Arrivarono i barellieri. L'ambulanza si fece largo con la sirena spiegata, diretta verso l'ospedale Santo Spirito. Purtroppo, Vincenzo cessò di vivere lungo il tragitto. Uno spettatore raccolse il piccolo razzo insanguinato che aveva ucciso Paparelli e lo consegnò alla polizia. Solo dopo un quarto d'ora si sparse fra il pubblico la notizia della morte del trentareenne meccanico di Montespaccato.
Vergognoso è che la partita si sia disputata lo stesso, nonostante l'inferno scoppiato tra le tifoserie.
Il resto è storia d'un episodio assurdo, allucinante, doloroso per il quale sono stati scritti fiumi d'inchiostro.
Mi chiamo Vincenzo Paparelli…
di
Massimiliano Governi
«Mi chiamo Vincenzo Paparelli, e sono morto il 28 ottobre del 1979. Forse qualcuno si ricorda ancora di me. Ero un uomo di trentatré anni che un giorno fu ucciso allo stadio Olimpico da un razzo a paracadute di tipo nautico sparato da un tifoso ultrà della Roma. Quando sono stato colpito stavo mangiando un panino con la frittata. Mia moglie Vanda cercò di estrarmi quel tubo di ferro dall'occhio sinistro, ma siccome il razzo bruciava ancora, finì per ustionarsi una mano. Il medico che mi ha prestato i primi soccorsi, dichiarò che nemmeno in guerra aveva visto una lesione così grave. Il giorno dopo tutti i giornali mostrarono una fotografia scattata qualche mese prima, che mi ritraeva in un ristorante insieme a mia moglie. Soltanto il quotidiano Il Tempo pubblicò l'immagine di me, riverso per terra, con la faccia insanguinata e l'orbita dell'occhio sinistro vuota. Sono stato la seconda vittima del tifo calcistico in Italia, la prima era un tifoso della Salernitana che nel 1963 morì in seguito a degli scontri scoppiati in tribuna con dei tifosi del Potenza. Tra le personalità del mondo sportivo il primo ad accorrere all'ospedale Santo Spirito, dove sono giunto ormai morto, è stato il Presidente del Coni Franco Carraro. Mio cognato quando ha sentito alla radio il mio nome ha pensato a un caso di omonimia. Mio fratello quando ha saputo della disgrazia, ha avuto un forte senso di colpa perché mi aveva prestato la tessera e quel giorno allo stadio al mio posto doveva esserci lui. Mia moglie, che era accanto a me nell’ambulanza, per tutto il tempo mi ha pregato di non morire e mi ha tenuto stretta la mano. Dopo aver sbrigato tutte le formalità in questura e aver ritirato i documenti e i miei oggetti personali, ha avuto una crisi e ha cominciato a urlare. Sulle foto apparse sui giornali i giorni seguenti viene ritratta insieme a sua madre che cerca di consolarla e le tiene un braccio sulla spalla. Ha la faccia stanca e scavata, e nei suoi occhi c'è qualcosa di terribile. Il mio nome e quello dei miei familiari sono comparsi sui quotidiani per tutta la settimana dopo l'omicidio e anche quella successiva, ma sempre con minore risalto. Io sono stato definito unanimemente un uomo normale e tranquillo, con un'unica passione, quella per la Lazio. Alcuni quotidiani hanno sottolineato più volte che avevo un'officina meccanica in società con mio fratello e vivevo in una moderna borgata romana chiamata Mazzalupo. Qualcuno ha scritto che avevo comprato il televisore a colori con le cambiali, e il mio unico lusso era un Bmw di seconda mano che tenevo in garage e lucidavo come uno specchio. Dopo la mia morte, il capitano della Lazio Pino Wilson ha telefonato a mia moglie per farle le condoglianze. Anche il sindaco di Roma Petroselli ha telefonato, e si è offerto di pagare le spese del mio funerale e ha messo a disposizione della mia famiglia un assistente sociale. Il giocatore Lionello Manfredonia è andato a far visita ai miei familiari regalando a mio figlio più piccolo la sua maglietta con il numero cinque. Al mio funerale c'era tutta la squadra della Lazio, insieme all'allenatore Bob Lovati e al presidente Lenzini. I giocatori della Roma invece non hanno partecipato perché impegnati con la trasferta di Coppa Italia a Potenza, al loro posto la società ha inviato i ragazzi della Primavera. Alla cerimonia funebre hanno assistito migliaia di persone e per quel giorno è stato proclamato il lutto cittadino. La Fondazione Luciano Re Cecconi ha devoluto un milione in beneficenza alla mia famiglia. La giunta regionale del Lazio ha stanziato la somma di cinque milioni come segno di solidarietà. La AS Roma ha fatto affiggere una targa in Curva Nord per ricordare la mia persona. Mio fratello Angelo ha proposto alle due società romane una partita Lazio-Roma mista cioè con i giocatori laziali e romanisti mescolati nelle due formazioni. Per alcuni giorni sono stato oggetto di un acceso dibattito sulla violenza negli stadi. Il sindaco di Roma ha detto che bisognava meditare su questa tragedia e discuterne in tutti i club sportivi e nelle scuole. Qualcuno ha proposto che venissero installati negli stadi degli impianti di televisione a circuito chiuso per individuare i tifosi violenti. Il capo degli arbitri, Giulio Campanati, ha chiesto l'abolizione della moviola in Tv. Per alcuni mesi sono state prese drastiche misure repressive: è stato proibito l'ingresso allo stadio di aste di bandiera, tamburi e persino di striscioni dai nomi bellicosi, e anche di spillette e toppe che potessero risultare offensive. Il pubblico doveva incitare la propria squadra solo con la voce e con le mani».