IL MITO DELLE BOTTICELLE ROMANE di Claudio Di Giampasquale

Le «botticelle» carrozzelle di piazza trainate da cavalli dedicate al servizio pubblico di trasporto persone, nella città eterna furono predecessore degli odierni taxi e quando venne l'automobile, lentamente sono andate pressochè in disuso. Mi preme fare un chiarimento: nel brano qui di seguito si parlerà di un frammento di storia, a mo' di semplice fotografia di ciò che effettivamente fu un servizio di mobilità in epoche diverse da quella attuale, quando anche a Roma come in tutte le città d'europa e del mondo i cavalli erano protagonisti di uno dei principali modi di viaggiare, di trasportare persone ed anche di spostare merci. È importante sottolineare che il rapporto tra l’uomo e il cavallo è un'interdipendenza che da sempre ha richiesto e richiede una grande responsabilità da parte del genere umano. I cavalli sono animali meravigliosi, ma anche delicati e bisognosi di cure e attenzioni. In definitiva, questi magnifici quadrupedi sono stati e rimangono un elemento importante della storia dell’umanità, il loro ruolo è cambiato nel corso dei secoli e non sono più necessari a risolvere certi bisogni primari. Ci sono e resteranno sempre accanto a noi ma in modo diverso rispetto ai tempi andati e la loro bellezza, eleganza e forza rimangono immutate. Siamo fortunati ad avere questi animali nella nostra vita e dobbiamo essere grati per tutto ciò che ci hanno offerto nel passato e in modo diverso ci offrono oggi, sia come compagni sia come fonte d'ispirazione.

La «botticella» è uno dei simboli della città eterna, un pò come lo sono le gondole a Venezia. Una carrozza trainata da un cavallo che porta turisti in giro per il centro storico di Roma. I primi botticellari arrivarono oltre tre secoli fa dal Molise e grazie alla loro esperienza con gli animali, vennero assoldati dalle famiglie nobili romane come stallieri. Poi divennero "vetturini" e già all'epoca dello Stato Pontificio si occuparono di trasporto pubblico di persone. Le principali rimesse furono ubicate a Borgo, a via Sannio, a Monte dei Cocci a Testaccio. Oggi a Roma di «botticelle» ne sono rimaste pochissime rispetto a una volta, molti dicono che sia una fortuna che questa caratteristica figura sparisca definitivamente e che bisogna farla finita di sfruttare i poveri cavalli. La modernità è totalmente contro quest'antico mestiere e da ogni dove emergono proteste e lamentele. Tuttavia nonostante siano destinate a scomparire, le carrozzelle dedicate al servizio pubblico trainate da cavalli, rimangono un'icona storica della città eterna che merita rispetto e giusta considerazione, un simbolo che tanto ha dato all'immagine della capitale.

Il vetturino romano rimane senza tempo, costituendo oggi un autentico motivo di colore, privo, oltre tutto, di particolari riferimenti topografici. Quasi uno spaesato. Sopravvissuto di quella nobile categoria che ha incominciato ad assottigliare le fila con l'avvento dell'automobile. Sì, che quando una «botticella» va ad infilarsi nella corrente del traffico i passanti si voltano al richiamo di quel lento scàlpito ripetuto, cadenzato e caratteristico rumore degli zoccoli del cavallo che battono i sampietrini (a volte ma di rado del più ritmico trotto)

Soprattutto i turisti guardano curiosi come un tempo guardava e amava "fare ala" il popolo romano al passaggio festoso dei «landò» che scendevano dal Campidoglio dopo uno sposalizio.

La carrozzella romana è rimasta nelle sue linee essenziali, quella di fin dè siecle e non che non abbiano mai provato a modificarla, a farle assumere diversa forma. Dice uno dei vetturini più anziani: «me ricordo, che molti anni fa 'n collega montò nà specie dè ombrellino, tutti se fecero nà risata e jè toccò levallo». 

Chiudiamo per un momento gli occhi e proviamo a immaginare piazza San Silvestro sullo scorcio dell'Ottocento. Una piazza più piccola di quella attuale che s'è mangiata anni fa piazza San Claudio e il resto, e in mezzo alla quale faceva spicco il monumento al Metastasio traslocato in appresso alla Chiesa Nuova. Ma c'è un altro elemento a rendere attraente il luogo e nessuno riuscirebbe a ricordarlo se non ci venisse in soccorso la colorita testimonianza di Giustino Lorenzo Ferri che molto fa scrisse della "Roma umbertina": «Piazza San Silvestro nella giocondità della luce solare rideva tutta, luccicante dei riflessi metallici delle vetture da nolo schierate in fila. Battuti dal sole meridiano i riverberi bianchi delle lanterne mandavano raggi e sprazzi argentei e nervosi, mentre gli ottoni dei finimenti dei cavalli ardevano tranquillamente col tono giallo e nello splendore caldo dei riflessi d'oro». Non che circolazione e stazionamento delle vetture non avesse avuto anche prima le loro drastiche norme. C'è da sciegliere come e quanto si vuole. Prendiamo l'anno 1798, l'autorità francese governava Roma, e a Villa Borghese le carrozze invadevano persino i prati. Ci fu la seguente ordinanza di polemico attuale sapore: «Niuno a cavallo e niuna carrozza potrà passare nei prati e viali destinati al passeggio a piedi, sotto pena d'esser rigorosamente punito. I vetturini formeranno due file nel viale grande di mezzo, una deve andare e l'altra deve venire. Nè debbano mai essere tre o quattro file, come giornalmente succede in quanto l'imbarazzo e l'urto delle carrozze ha già cagionato del disordine, che potrebbe, se non venisse represso, costare a più di uno la vita. I proprietari delle carrozze saranno responsabili dell'esecuzione di questi articoli e saranno puniti in caso di contravvenzione».

Ed eccoci a piazza Colonna il primo giorno di ottobre del 1847, secondo quanto si legge nel diario di Agostino Chigi, per la trascrizione di Pietro Romano: «In seguito di una notificazione del cardinale "Prefetto di Acque e Strade" cominciando da oggi tutte le vetture di piazza dovranno collocarsi in fila nei siti riportanti i numeri a loro assegnati. A piazza Colonna il posto assegnato a questi siti è lungo la facciata di Palazzo Chigi ove sono stati apposti i numeri. In fatto però, niuno s'è informato all'ordine e le vetture che stranamente sono venute nella piazza in misura minore del consueto si sono collocate a proprio arbitrio come hanno fatto sin ora» Ma già un mese dopo, il 5 novembre, il Chigi poteva ancora far annotare: «Questa mattina le vetture di piazza Colonna che sin ora non si erano date per intese delle prescrizioni della Presidenza delle Strade, si sono situate ai posti loro assegnati, a norma della notificazione della suddetta Presidenza».
Restano ancora centinaia di testimonianze storiche e letterarie sulle «botticelle» romane, sull'umore satirico dei vetturini e sulla disciplina di traffico a cui dovevano sottostare. Eugenio Giovannetti citò la carrozzella che trasportava Trilussa bloccata, in un giorno del 1920:
«...da un improvviso ingorgo di carrozze nel crocevia in cui affluiscono via Sistina e via Quattro Fontane». I vetturini erano allora i veri e unici padroni del centro e della periferia, d'estate e d'inverno, di giorno e di notte.

Le vetture a trazione animale in servizio pubblico, avrebbero conosciuto poi l'amarezza della decadenza con l'avvento dei mezzi motorizzati, nel caso specifico, dei taxi. Comunque restano ancora, poche e rare, ma ci sono sempre ad attraversare la città eterna. Superstiti carrozzelle che s'affacciano e trionfano ai tepori della sublime primavera romana con a bordo intere famiglie di curiosi turisti o più frequentemente di romantiche coppie di innamorati. Vetturini che al di fuori del tempo restano oggi i depositari di una peculiare e lenta saggezza romana e romanesca del sapore di una volta. Seduti alla guida, raramente colloquiali ma con pochi termini in un maccarònico inglese con forte inflessione romanesca, prevalentemente silenti in totale empatia con il loro cavallo. Più paciosi che remissivi, laconici quasi sempre, essi si dimostrano misurati persino nella verbosità. E gli stranieri sono tra i primi a godere di questa loro schietta e armoniosa «parlata» supportata da una mimica e da gesti che rendono comprensibile anche l'incomprensibile.


Il vero asillo del vetturino è il cavallo, creatura che egli fa partecipe dei propri sentimenti, delle proprie aspirazioni, degli episodi quotidiani dell'esistenza, fino alle estreme possibilità. Tra i due esseri viventi ci sono un'affetto, una consonanza e un'affiatamento che commuovono. Basta poco per capirsi e succede sempre. I vetturini romani sentono romane e romanesche anche le loro «bestie». C'è un divertente e paradossale aneddoto che negli anni cinquanta Ennio Flaiano scrisse sul settimanale "Il Mondo" raccontando quando nell'epoca dello Stato Pontificio si propose d'utilizzare per il traino delle carrozze del servizio pubblico i "cavalli ungheresi" in quanto giudicati più resistenti e rapidi dei nostrani e per l'acquisto ci sarebbero state grandi agevolazioni. Ma questa raccomandazione, non sortì nessun effetto. Venne allora chiesta ai vetturini romani la ragione e uno di essi rispose in modo greve, lento e convinto: «A parte er bene che vojo a Rosetta mia (la sua cavalla), me piacerebbe puro a me 'n cavallo come quelli lì, ma poi come facessimo a capisse? No io sto bene così cò Rosetta mia».
Oggi, percorrere su una botticella le strade di Roma (le stesse strade che spesso e frettolosamente siamo obbligati a solcare con mezzi di mobilità moderna) crea magia e mentre il cavallo va improvvisamente la città parla e con lei tutto ciò che vive in essa, con cadenza ritmica scandita dal rumore degli zoccoli sul selciato. Una cosa è certa e indiscutibile: il mestiere del vetturino romano di botticelle rimane ancora oggi un rispettabile mestiere, benchè anacronistico e destinato a scomparire, tuttavia meritevole di enorme considerazione e rispetto.