L'ARCO DI TITO E GLI EBREI di Claudio Di Giampasquale
Posto nel Foro Romano alle pendici orientali del Palatino dove inizia la via Sacra, l'arco di Tito è un magnifico monumento trionfale romano. Fu eretto circa ottant'anni dopo la nascita di Cristo dall'imperatore Domiziano successivamente alla morte di suo fratello Titus Caesar Vespasianus Augustus per celebrare le sue vittorie nella "Prima Guerra Giudaica" e la conquista di Gerusalemme. Quest'antica porta dei trionfi è celebre per l'intatto fascino dei suoi elementi strutturali decorativi e dei rilievi interni che raffigurano le scene del trionfo di Tito, quando nove anni prima di diventare "augustus", da generale sotto il comando di suo padre Vespasiano imperatore guidò la vittoria grazie alla sua abilità tattica e alla superiorità delle legioni romane che per cinque mesi assediarono brutalmente Gerusalemme. Dopo la conquista portarono in processione il bottino saccheggiato dal Tempio, tra cui il sacro candelabro a sette lucerne. Mentre la città subì una devastazione radicale, uccisioni di massa e la deportazione di gran parte della popolazione ebraica, segnando la fine d'un sogno d'autonomia e l'inizio della «diaspora ebraica» con l'ultima resistenza simbolica a Masada che cadde tre anni dopo. Molti ebrei furono espulsi dallo Stato della Giudea.
In quest'arco trionfale nel Foro Romano, il bassorilievo mostra il corteo trionfale con la Menorah e l'apoteosi (divinizzazione) di Tito, trasportato in cielo da un'aquila. L'opera monumentale dell'Arco di Tito, con un unico fornice e un stile robusto, introdusse innovazioni spaziali che anticiparono il Rinascimento. Fu un capolavoro scultoreo per commemora la dinastia Flavia. Dopo la caduta dell'Impero fu inserito in fortificazioni medievali ed è sopravvissuto ai giorni nostri grazie al restauro dell'Ottocento.
A poca distanza del Ghetto ebrico, fu chiamato dai romani "Arco dé le sette lucerne" in riferimento, appunto, al candelabro.
La «Menorah» (portata dal corteo ebraico nel bassorilievo in quest'arco) rappresenta i sette giorni della creazione dei quali quello centrale simboleggia il «Shabbat» (sabato) ed anche il sole, la luna e i cinque pianeti visibili. È un antico e solenne simbolo dell'ebraismo, legato al roveto ardente dove Dio si manifestò a Mosè, e simboleggia la luce divina e la vitalità del popolo ebraico. Per tal motivo, non vi sono mai passati sotto, sin da quando fu edificato circa duemila anni fa, perchè ricorda la sconfitta.
Il poeta romano Giuseppe Gioacchino Belli, nato nel rione Sant'Eustachio in via dei Redentoristi 13, scrisse nei mesi d'agosto e settembre del 1830 i suoi sonetti dedicati al "Campo Vaccino" catturando in versi romaneschi la vita popolare e le vestigia antiche del luogo, evidenziando più volte il contrasto tra il pascolo del bestiame e la grandezza delle rovine romane circostanti. Documentò la vita quotidiana e le superstizioni, usando il vernacolo come strumento per la sua "commedia umana".
Nei vari racconti il poeta ci offre uno sguardo vivido sulla Roma del diciannovesimo secolo tra le rovine e la vita di strada. Ecco a proposito dell'Arco un sonetto tratto dalla terza parte di "Campo Vaccino", scritto venerdi 10 settembre 1830:
A quer tempo che Tito imperatore
có premissione che je diede iddio ,
movè la guera ar popolo giudío
pÉ castigallo che ammazzò er signore;
lui radunò la robba dÉ valore
dicenno: «cazzo quer ch'è d'oro è mio».
e li scribba che faceveno pio pio
te li fece snerbà dar corettore.
e poi scrivette a roma a n'omo dotto
cusì e cusì che fabbricassi n'arco
co li cudrini der gioco dell'otto.
Si ce passònno li giudii? ...sammarco!
ma adesso prima dé passacce sotto ,
se fariano ferrà dar maniscarco




