LA SENSIBILITÀ DI SANDRO ONOFRI intervista di Roberto Carvelli al compianto scrittore

Parlare di Sandro Onofri è levare polvere al dolore che la sua scomparsa prematura a soli quarantaquattro anni ha lasciato in tanti amici e lettori. È bello ricordare l'intervista nella sua casa di via Majorana, traccia di un pomeriggio unico, è cercare in quei primi, ultimi minuti dei presagi inutili. Sandro Onofri si era laureato come studente lavoratore (legatore) in letteratura italiana, con una tesi su Giuseppe Gioacchino Belli. Nato e cresciuto a Roma tra Magliana e Portuense, non ha potuto non ringraziare Pasolini per tutte le contaminazioni che arricchiscono la sua prosa. Insegnava a Pomezia, propaggini di Roma tra le più industriose nel senso etimologico della parola. Ha composto superbi reportage sul territorio per «Diario della Settimana» e per «L'Unità». Unanimamente considerato uno degli scrittori più interessanti dell'ultimo decennio del Novecento, aveva esordito nel 1990 con la «Luce del Nord» e poi aveva ottenuto diversi riconoscimenti della critica per «Colpa di nessuno» nel 1995. Ci ha lasciato una delle sue massime prose narrative «L'amico d'infanzia» nel 1999, con i suoi eroi meschini, sacrileghi nell'offesa dei valori di basica umanità alla cui insegna è ancora la città con la sua cattiveria genetica e il cui passo è quello del crudo resoconto che rimane un testamento di una bella voce narrativa della sua generazione.

Sopra a destra il murales “Liberi e Bellissimi” dedicato a Sandro Onofri realizzato nel gennaio 2020 dai ragazzi dell'Istituto Comprensivo Sandro Onofri alla Magliana

Io sono nato e cresciuto alla Magliana, dove ho abitato fino agli anni Novanta. Poi ho vissuto sei anni in una di queste orrende zone nuove disegnate dai geometri e non dagli urbanisti, come lo sono d'altronde tutti i quartieri di Roma, esclusi quelli fascisti. Acilia: grandi colate di cemento da cui emergono questi cubi dai colori improbabili, celeste verde pisello, giallo. Un disegno c'è: l'idea di fare palazzi bassi e non ripetere l'errore di Corviale. Lasciare spazio verde. Tutto questo a costo di quelli che sono i tradizionali punti d'incontro dei popoli mediterranei: le piazze. Io sono andato via da lì soprattutto per motivi di organizzazione familiare, alla nascita di mia figlia, ma contento perchè non c'era una vita di quartiere, avere un certo numero di facce che incontri. Qui c'erano i Ferrobedò e la Porfina di Pasolini. Certo anche qua siamo nei posti in cui Caltagirone e Armellini hanno affondato le mani con le unghie lunghe.
In tutti i tuoi romanzi, come nelle inchieste giornalistiche per «Diario della Settimana» , c'è sempre una ricerca di realtà, di verità. Quali spunti ti offre Roma per i due lavori?
Con Roma ho un rapporto conflittuale. Per me Roma è come una sorella di quelle che non si vedono mai, che si incontrano solo a Natale. E in quei giorni sei contento perchè è comunque tua sorella, ci sono tanti ricordi in comune e soprattutto c'è la lingua in comune, la lingua della madre. Il dialetto romanesco è una cosa che mi piace, che ho studiato e di cui ho bisogno. Quando sono agitato ho bisogno di parlare in romanesco. Anche a casa con papà e mamma parliamo il dialetto. Questa sorella, aspetta tanto il giorno in cui potrò rivederla, ma poi quando arriva quel giorno, passati i primi momenti in cui ci abbracciamo fortemente, non vedo l'ora di scappare via. Anche perchè questa sorella è sposata con uno stronzo che non paga le tasse, che va in giro col mercedes, che fa il dritto. Uno di questi nuovi romani che romani non sono, che mi fa schifo. Per cui dopo un quarto d'ora scappo e me ne voglio andare in qualche paesetto.

Restando in questa tua metafora, questa sorella abita tutta Roma o solo i quartieri nuovi?
No, questa sorella sta nei quartieri nuovi, in quelli che erano i quartieri di periferia e che ora di periferia non sono più. Nel centro non ci sono nè sorelle, nè cugine. Sinceramente, al di là del divertimento che ti può dare in una serata, penso che il centro sia un enorme ufficio o un museo. Poi, certo, in questi anni Roma è cambiata. Se penso a quando avevo venticinque anni, andavo in giro la notte e non c'era niente tranne i cinema e qualche osteriola. Oggi Roma è una città che non dorme mai. Per uno che va a raccogliere storie è una fonte inesauribile di idee, di stimoli, di voglia di camminare. Però a viverci dentro da romano, e il romano è di natura conservatore, il centro è diventato un posto dove i rapporti non ci possono essere. Io non è che vivo di rimpianti ma del momento ripulito non me ne frega niente. Lo preferivo sporco ma con una scritta che sicuramente mi raccontava qualcosa. Poi certo i turisti vengono, pagano e hanno diritto di vedere i monumenti ripuliti, imbiancati. Tutto sommato io ho poco rapporto con quella Roma. Io vivo nel primo anello esterno al centro dove si è fatta la storia del dopoguerra.
Se la Roma non è più il centro, lo può essere questo primo anello?
Non credo che si possa parlare di "vera Roma". Ci sono tante città diverse ognuna delle quali è importante anche in negativo. Il centro lo è perchè è il centro politico con tutto quello di malinconico e di grigio che questo può suggerire. L'anello immediatamente esterno è l'officina dove la cultura s'impasta. Io, se devo vedere che aria tira dal punto di vista della mentalità, non vado al centro, perchè lì trovo dei pupazzi programmati per agire, perchè sono affaristi, sono politici, sono commercianti. Se invece voglio vedere a che cosa si appassiona la gente, vado in questo anello esterno in cui, tra l'altro, vivo. È lì che vedo come va il tempo e il tempo va in una direzione lontana da quella in cui vorrei andare io, e quindi io non vivo un buon rapporto con questa città.
Prima citava Pasolini nella cui opera in effetti questa zona di Monteverde-Portuense la fa da padrona
Tutto «Ragazzi di vita» si svolge qui. Inizia alla Scuola Franceschi che sta qui a Donna Olimpia, il "riccetto" scende e arriva qua. C'è la Porfina che era una raffineria. Poi c'è l'ospedale Forlanini dove si svolge un capitolo importante di «Una vita violenta». Poi proprio davanti a Villa Pamphili, a via Pio Foà, ha abitato un altro grande, Giorgio Caproni. I suoi funerali sono stati celebrati nella parrocchia di Donna Olimpia che compare dentro «Ragazzi di vita». In quella stessa chiesa io avevo incontrato Pasolini quando lo invitammo ad una proiezione in una mattinata fatta a scuola. Come si faceva negli anni settanta: filmato più dibattito obbligatorio. È stato molto bello. Pasolini ha preso di petto noi giovani pieni certezze e ce le ha sbaraccate, le nostre certezze. Io sono rimasto fulminato da quella mattinata.
Che cosa ti ricordi?
Non so se avevo già la vespetta o andavo ancora in bicicletta a scuola. Era maggio del 1974 e io iniziavo allora a leggere qualcosa in sezione, non è che alla Magliana girasse granché. Papà mi aveva insegnato a leggere, ma i romanzi: Balzac, Hugo, Dumas... Gli autori contemporanei non li conoscevo, per cui quando i compagni più grandi mi dissero che invitavano Pasolini, io sapevo chi era, ma non avevo mai visto una sua fotografia, nè lo avevo letto. E siccome ero il più giovane, loro, paraculi, si videro il film e a me mi misero ad aspettare Pasolini. E io nella mia mente, siccome sapevo che era un regista, mi aspettavo un ciccione con la pancia, pelato. E ho aspettato tutta la mattina questo signore grasso e pelato con un cappotto. E non mi sono accorto evidentemente che mi è passato vicino un signore con un giubbotto di jeans, piccolo piccolo e magro. Poi visto che il film stava arrivando alla fine e
'stò Pasolini nun se vedeva, sono andato da questo signore che era entrato poco prima e che si era meso a sedere all'ultima fila della sala e gli ho domandato se aveva visto arrivare Pasolini. E questo, che io pensavo fosse uno del cinema, mi ha detto che era lui. Sono diventato rosso, non sapevo che dire. Finito il film è iniziato il dibattito. Per me è stata una giornata importante. Io già scrivevo, ma di nascosto. La mentalità che mi aveva attaccato la Magliana era che chi scrive è frocio, poi poesie! Avevo paura. Già chi legge non la racconta giusta. E io scrivevo di nascosto anche dai miei genitori e non riuscivo a mandar d'accordo questa esigenza che avevo di obiettare che mi stava succedendo dentro. Avevo diciassette anni. Questa esigenza, dicevo, di raccontare su un foglio con la virilità che sentivo di dover difendere e la romanità. In questi tre poli la virilità e la romanità andavano d'accordo, ma la scrittura contraddiceva tutto. Quella mattina scoprii che non potevano non andare d'accordo, perchè «Accattone» era un'opera che coniugava romanità, virilità e poesia. E quello che disse Pasolini dopo era quanto di più virile un intellettuale potesse dire. E questo, tra l'altro, mi mise parecchi dubbi sulla sua omosessualità che già si sapeva. Pasolini era il più virile degli intellettuali e secondo me era odiato per questo, perchè era omosessuale ma era il più virile. Ecco, vedi che mi emoziono ancora a parlarne. Ho deciso di non scrivere più di lui perchè anche quando scrivo balbetto, scrivo male di lui.
Tornando al realismo dei tuoi libri, in che relazione è con Roma?
È vero che tutto sommato io scrivo libri realistici, però dentro c'è la ricerca di una figura molto importante se no uno dei tre poli non c'entrerebbe, c'è l'iperbole. Ecco, la romanità è garantita dall'iperbole che in romanesco è
"l'allargasse", l'esagerazione. I personaggi miei sono sempre un pò esagerati, sempre, senza pelle, con i nervi di fuori. Questo essere esagerato, fino ad ora era un iperrealismo troppo esagerato. Adesso sto facendo un'altra ricerca e credo che mi sto cominciando ad avvicinare alla cifra che voglio dare ai miei personaggi. Non è che voglio fare il "romano dé Roma", ma credo che Roma è la capitale della fine dell'impero. Una città monumentale, una specie di palcoscenico vivente in cui ognuno recita la parte di un cantore della defunata grandezza... La gente non si muove in maniera naturale, è vero, ma non perchè recita, ma perchè è costretta a muovere le labbra per pronunciare parole che qualcun'altro ha scritto. Parole per dire, idee, mondi. Una città doppiata. È questo che mi ossessiona. Se noi prendiamo il romano dei libri di Moravia o dei film di De Sica, il romano, quello tipico, famoso, ecco, quello era un popolo che aveva una sua cultura. Infatti molti modi di dire romaneschi sono entrati nell'italiano standard. Il popolo di adesso non è più in grado di elaborare una propria cultura, una mentalità, degli usi. È un popolo come tutti gli altri. La nostra gente sta qui per riempire questa scatola che poi è un meraviglioso carillon. Non esiste più la vera romanità. Che differenza c'è tra un romano e un milanese? Nessuna. Se uscisse una Lega romana sai quanta gente la voterebbe? Basta che assicurino di pagare meno tasse e un posto di lavoro al figlio. Una lega capeggiata da qualche cardinale, qualche zìprete.
Dai tuoi romanzi è stato scritto che peschi nel sottoproletariato...

Mica è vero, mica ci sono ladri e puttane. Ci stanno i burini ripuliti, un'altra questione. Ad esempio come quelli del film «Un'altra vita» di Mazzacurati, quella è una Roma che c'è, che conosco, che mi piace. Io poi ho bisogno, con quei personaggi, di andare più a fondo perchè c'è un mostro dentro che voglio andare a scovare. 
Una caratteristica dei tuoi romanzi è quella del ruolo preponderante che assumono le famiglie rispetto ai personaggi
Perchè c'è. È una mentalità che c'è ancora oggi. Lo vedo spesso tra le famiglie dei miei studenti. Per il fatto che tu non appartieni alla mia famiglia è come se avessi una gamba di meno.
Una mentalità da clan?
Si una mentalità da clan. Poi, certo a Roma non c'è la mafia, ma la mentalità è quella. Io li capisco i legami familiari del sud, appartengono alla logica in cui sono cresciuto e ci ho messo tanta fatica e tanta pena a staccarmi. Essendo mia madre la più piccola di sette fratelli, io sono uno dei cugini più piccoli. Tutti i miei cugini erano più grandi e mi sono visto tutti i fidanzati e le fidanzate che hanno portato a casa. Ognuno di questi doveva passare l'esame della famiglia. Bastava che ci fosse una normale lite, il fidanzato se era un lui diventava un disgraziato e un figlio di puttana, se una lei, diventava una mignotta. Io non ci credevo.
Tutti i tuoi romanzi sono poi ambientati tra Magliana e Portuense, zone in cui hai abitato...
Tutta la Roma ovest. È una zona che ho visto venir su. Da quando c'erano solo canne e vigneti, le prime casette abusive tutte a un piano con la veranda fuori, un pò messicane. Poi c'è stata la grande migrazione degli anni sessanta con i quartieri che si sono riempiti di calabresi, siciliani, napoletani. Noi che eravamo abituati ai silenzi abbiamo scoperto all'improvviso la metropoli con tutto quello che di brutto e di esaltante può avere. Quelli erano anni solo positivi: non c'era nè regressione, nè pigrizia culturale. C'era un'umanità che si doveva affermare, per cui c'erano insieme solidarietà e cattiveria. Era tutto al positivo. All'epoca in questi quartieri qui era la maggioranza che si doveva creare una posizione sociale. Oggi ci si è fermati, questa è una città in cui nessuno deve più conquistare niente. Forse ora solo gli extracomunitari. C'era tutta un'infinità di storie, di personaggi. Se devo raccontare una storia che sia rappresentativa di un pezzo di storia italiana apro la finestra: il riassunto del dopoguerra sta qua fuori.
In «Colpa di nessuno» hai scritto delle cosiddette due gocce di pioggia che immobilizzano la città...
Anzitutto le gocce che cascano a Roma sono più grosse di quelle che cascano in altre città. Non ho mai visto gocce così grosse e pesanti. A Roma, siccome c'è il Papa, i romani pensano di avere un rapporto privilegiato con il Padreterno e con tutto quello che ne può provenire, pioggia compresa. Quando inizia a piovere i commenti sbocciano spontanei spontanei, per cui senti:
«e che è ...e basta» come se il Padreterno stesse esagerando. Se sta tanto tempo senza piovere, i primi dieci minuti la gente aspetta, poi si lamenta. I romani considerano il Padreterno un tipo esagerato, uno che se gli chiedi una cosa te ne dà troppa.
C'è una parola in romanesco che ti sembra particolarmente significativa?
Ce ne sono molte ma voglio raccontarti un aneddoto. Il romanesco è un dialetto violento, duro e io per i miei romanzi in certi tratti voglio una lingua così. Mentre a Milano stavano correggendo le bozze del mio libro «L'amico d'infanzia», la correttrice di bozze che è una che ha quattro occhi mentre legge, una bravisima, essendo milanese mi sottolinea le parole che sono in romanesco e che lei non conosce. E ci sono delle parole che neanche mi ero posto il problema che non fossero italiane. Per esempio
"schicchera", ho controllato sul dizionario e non c'è. Ed è una parola fondamentale per il nostro dialetto perchè è un gioco con le dita che si fa da ragazzini dietro le orecchie oppure giocando con le palline, ma anche una misura per dire 'nà botta forte, un suono onomatopeico. Il dialetto romanesco è pieno di suoni duri, di "s" impure, di "t, r, z" dure. Questa è una città violenta, è nata con l'omicidio di un fratello, almeno stando alla leggenda, la storia è meglio non guardarla che è pure peggio. Anche la Resistenza a Roma è stata scanzonata ma terribile. C'erano due bande, la Kock e la Baldi. E poi la Pollastrini fra le bande fasciste più feroci in Europa. C'era un continuo viavai con Cassino e gli alleati. I romani si nascondevano e le donne a casa cucivano le bandiere in attesa della liberazione. Roma è una città che nella ferocia diventa unica , nel momento in cui decide di essere eroica preferisce farlo in sordina.     

La Biblioteche di Roma Sandro Onofri in via Umberto Lilloni 39 nella borgata di Acilia, ricorda con questo video lo scrittore e poeta romano in occasione della nuova edizione del Premio a lui dedicato. Interventi del giornalista Nicola Fano, dello scrittore Daniele Rielli, vincitore dell'edizione del Premio 2023, e di Angela Buonocore, responsabile della Biblioteca

Il libro «Registro di classe» un opera postuma di Sandro Onofri. Nel suo computer la moglie ritrova un diario, incompiuto: è l’ultimo racconto della scuola pubblica del Novecento, e ha il sapore di un involontario testamento alle soglie di un nuovo millennio e della rivoluzione tecnologica. Onofri si chiede  con il suo stile asciutto e antiretorico, quale sia il modo più onesto per insegnare... [Per saperne di più]

Le opere letterarie di Sandro Onofri 

Luce del Nord (1990) | Vite di riserva (1992) | Colpa di nessuno (1990) | Le magnifiche sorti. Racconti di viaggio (e da fermo)  (1997)  |  L'amico d'infanzia (1999) 

Registro di classe (2000 opera postuma)  |  Vite di riserva (2006 opera postuma) | Un anno a Pietralata  (2008 opera postuma) | I figli e i padri  (2008 opera postuma)