"LA DOLCE VITA": IL CORAGGIO DI FEDERICO di Matteo Collura (tratto dalla sua opera "Eventi")

In un pomeriggio d'inverno in cui Roma appare come coperta da un manto d'antracite che la fa assomigliare ad una delle più tetre acqueforti del Piranesi, Umberto Tupini ministro del Turismo e dello Spettacolo, chiede di essere ricevuto dal presidente del Consiglio Antonio Segni. Sono giorni di incertezza politica con i governi che vanno e vengono e le piazze sempre più inquiete, benchè l'Italia stia vivendo un periodo di grande euforia economica: «Hai visto cos'è successo stamattina?» dice Segni stringendo la mano al suo ministro. Qualche ora prima, in una chiesa dei Parioli, si erano svolti i funerali di un cantante molto amato dagli italiani, Fred Buscaglione, morto a trentotto anni in un incidente stradale avvenuto nel levarsi dolce di un'alba romana. La chiesa del Sacro Cuore in piazza Euclide, era stata presa d'assalto dagli ammiratori del cantante e dai curiosi. Non tutti ce l'avevano fatta ad entrare nel tempio, e così proteste, spintoni, zuffe, avevano reso necessario l'intervento della polizia. «Sì ho visto, ma non è di questo che volevo parlarti» dice Tupini, ed è con imbarazzo misto a fastidio che aggiunge: «È il film di Fellini che mi preoccupa» Secondo il suo parere le grane che potrebbero venire da quella pellicola riguardano il capo del governo, che è anche ministro dell'Interno; e democristiano come lui: quindi tenuto a tutelare i principi morali della Chiesa, che quel film getta nel fango. Ma Segni ha ben altro a cui pensare, il suo governo traballa ed egli è vicinissimo alla decisione di gettare la spugna (risoluzione che ufficialmente verrà comuncata diciannove giorni dopo). Per cui il presidente del Consiglio chiude il colloquio: «Vedrai che presto qualche pretore emetterà un'ordinanza di sequestro».

A sinistra: prima delle famose riprese Fellini accompagna Anita Ekberg a passeggio nella Fontana di Trevi, ma con degli stivaloni. La scena del bagno lì, resta l’icona del film

Quella stessa sera al cinema Capitol di Milano si proietta la prima del film «La dolce vita» di Federico Fellini, le signore in pelliccia sono tante e tanti i signori in abito scuro. Il pubblico è selezionato, perchè il prezzo del biglietto è di duemila lire, avendo la serata scopo di beneficenza. È il 5 febbraio 1960, un venerdi. Tra il pubblico lo stesso Fellini e l'attore protagonista Marcello Mastroianni. Scorrono in un brillante cinemascope in bianco e nero tre ore di visioni scioccanti, con donne nude, una biondona che di notte fa il bagno nella fontana di Trevi, fotografi a caccia di stelle del cinema in una Roma che sembra una moderna Sodoma e Gomorra, miracoli che provocano isterie collettive. Dapprima sono i sospiri e i colpetti di tosse nervosa a disturbare la proiezione, poi verso la fine, quando sullo schermo appaiono le prime immagini di un'orgia squallida e stremata, si ode il ticchettare dei passi degli spettatori che lasciano la sala. Un testimone di quella serata il critico cinematografico Tullio Kezich così ne scriverà: «Federico assicura che i fischi e le proteste durante la proiezione, in crescendo verso la fine con la scena dell'orgia, non lo hanno disturbato granché, anzi l'ha quasi divertito sentir gridare: basta! schifo! vergogna" S'è pure divertito all'uscita, in un primo momento, quando degli esagitati, hanno apostrofato a Mastroianni gridandogli: vigliacco! vagabondo! comunista! Poi il divertimento è repentinamente cessato» Ascoltiamo Fellini nel ricordo di Kezich: «Sarà che avevo l'influenza, e ieri ho preso troppi antibiotici. Però ho cominciato a preoccuparmi quando, scendendo la scalinata della galleria, ho sentito all'improvviso qualcosa di umidiccio qui dietro il collo: mi sono voltato e ho visto il faccione paonazzo del milanese che mi aveva sputato addosso. Che si fa in questi casi? Per fortuna alcuni amici mi hanno tolto d'imbarazzo trascinandomi via...» Continua il critico cinematografico: «Qualche giorno prima, assistendo alla proiezione privata della "Dolce vita" nella sua abitazione di via del Crocifiso a Milano, il produttore Angelo Rizzoli aveva detto al regista '...caro amico hai fatto un buon lavoro, ma non aspettarti elogi dalla gente'». La gente ora è lì agli ingressi dei cinema di tutta Italia a sgomitare per assicurarsi un posto in sala e assistere alla proiezione dello scandaloso film. S'è diffusa la voce che "La dolce vita" sta per essere sequestrato per immoralità e offesa al pudore. Per questo si corre in massa sperando di farcela prima che il provvedimento venga attuato. Non si può parlare di «elogi» ma non si può parlare neanche di biasimi.

L'Italia della quale soltanto una parte infinitesimale abita nella Roma che Fellini mostra nel film, è un Paese arretrato, lacerato dalle continue partenze dal Sud verso il Nord di uomini e donne in cerca di lavoro. Le parole che dice il giornalista decadente, interpretato da Marcello Mastroianni, non appartengono al mondo della stragrande maggioranza degli spettatori che dalla Valtellina alla Sicilia in quei giorni riempiono le sale cinematografiche, e perciò non sono capite. Così come incomprensibile appare il capriccio della bionda e fin troppo nordica Anita Ekberg, che si spinge in una notte di eccessi a bagnarsi nel monumentale fontanone romano. In quell'inizio del 1960 tre quarti della popolazione italiana non possiede il televisore e la sera in cui si trasmette "Il musichiere" o "Il giallo club" interi nuclei familiari si trasferiscono nei bar più vicini attrezzati di televisore o vanno sfacciatamente ad invadere le case di altre famiglie che possono permettersi il lusso dell'agognato elettrodomestico.
Cresce l'Italia dell'economia e dello Stato sociale, ma il contrasto tra la miseria e il benessere è fortissimo, specie tra le regioni settentrionalie quelle meridionali.

Nella primavera del 1959 il quotidiano londinese Daily Mail aveva asserito che «il livello di efficienza e di prosperità del potenziale produttivo dell'Italia costituiva uno dei miracoli economici del continente europeo». Ed era vero, ma erano in molti con la valigia di cartone sulle spalle, o nella catena di montaggio a far da incubo giornaliero, o impegnati nelle oziose passeggiate nei paesi del Sud. Avrebbero appreso in seguito che quello che stavano vivendo era «il boom». Nell'anno in cui esplodeva la bomba de "La dolce vita", in italia il numero dei lavoratori dell'industria veniva a superare quello degli agricoltori. Segno evidentissimo delle grandi trasformazioni socio-economiche già avvenute. In un certo senso "lo scandaloso" film di Fellini parlava anche di questo, ma non era facile arrivarci. Per questo per "La dolce vita" fu più facile diventare subito il manifesto dell'Italia nel mondo, anzichè uno specchio della realtà italiana (come alcuni critici progressisti scrissero). Del resto in quegli anni non si parlava proprio di «Hollywood sul Tevere» con i divi del cinema che lavoravano a Cinecittà e la sera invadevano i tavoli di via Veneto assediati dai fotografi.
Sedici mesi prima che il film uscisse "La dolce vita" era stata annunciata da un clamoroso fatto di cronaca. Era successo la notte tra il 5 e il 6 novembre del 1958 in un locale di Trastevere, "il Rugantino", dove il miliardario americano Peter Howard aveva dato appuntamento a numerosi esponenti dell'alta società romana per festeggiare i diciotto anni della contessina Olghina di Robilant. Nel pieno della festa, spronata anche da tanti drink, un'attrice svedese sconosciuta ai più, Anita Ekberg, s'era messa a ballare a piedi nudi, seguita dopo un pò da una ancor meno conosciuta ballerina turca, Aïché Nana, capelli di pece e occhi di nera brace. Presa dal ritmo e dall'atmosfera di trasgressione, la ragazza turca aveva cominciato a spogliarsi, mentre gli uomini che l'attorniavano eccitati, stendevano sul pavimento le loro giacche affinchè la danzatrice vi si potesse stendere e contorcere eroticamente. Uno dopo l'altro erano caduti camicia, gonna, reggiseno e Aïché Nana era rimasta a ballare con il solo slip. Qualcuno telefonò alla questura. E così nel locale di Trastevere pochi minuti dopo ci fu il caos, con gli uomini che si davano alla fuga in maniche di camicia e donne col trucco disfatto che si nascondevano negli angoli bui o nella toilette. Ecco quella scena finire, pur con immagini diverse, nel film di Fellini.
Anche uno degli episodi più impressionanti del racconto cinematografico, quello del miracolo in un'agghiacciante periferia di una grande città, fu ispirato a Fellini da un fatto reale, mostrato da un servizio fotografico di Tazio Secchiaroli, la cui figura suggerirà al regista il termine
«paparazzo». Racconta Kezich: «Nel giugno del 1958 il fotoreporter lesse su 'Il Tempo' una notiziola che riguarava due ragazzini, abitanti in una località a pochi chilometri da Terni: affermavano di vedere la Madonna ogni giovedi. Secchiaroli partì subito per capire di cosa si trattava. Trovò un campo pieno di ammalati, storpi e di donne in preghiera. Erano quasi le nove di sera, centinaia di ceri erano accesi e offrivano un colpo d'occhio insolito. Quando il fotografo cominciò a scattare i primi lampi, la folla gli corse incontro come abbagliata, molte donne, raccontò Tazio, scambiarono i colpi di flash per un fenomeno sprannaturale e istintivamente corsero verso la mia direzione. Fu davvero un miracolo se non fui travolto e calpestato. Il giovedi successivo il prato non era più occupato da qualche centinaio di persone, ma da una vera folla: saranno state più di tre o quattromila persone a dir poco e tutt'intorno una "babilonia" di automobili, di venditori d'immagini, di spacci di bevande, di fotoreporter. Fellini aveva visto quelle fotografie e ne era rimasto impressionato. Tazio Secchiaroli allora era giovane, scapolo e disposto a tutto pur di assicurarsi un servizio appetibile ai rotocalchi. E quel che allora i rotocalchi mostravano, nella mente di Federico Fellini diventava l'impalcatura della "Dolce vita". Ancora il raconto di Kezich: «Secchiaroli ha creato "un genere" nella sera di ferragosto del 1958. A Roma non c'era nessuno: davanti al Caffè de Paris, alle due di notte stava seduto l'ex re Faruk, saltò in piedi, afferrò il fotografo per il bavero e gli diede una serie di scrollate. Secchiaroli per liberarsi cominciò a menar le mani- Tutt'intorno altri fotoreporter riprendevano la scena del collega che si liberava tirando pugni nell'illustre pancia. La notte non era ancora finita. Mezz'ora dopo qualcuno arrivò di corsa per avvertire che Ava Gardner e Anthony Franciosa stavano litigando nel night di Brik Top. Secchiaroli, con Pier Luigi e Giancarlo Bonora, si precipitò. Scattò una foto con la macchina nascosta, ma Franciosa se ne accorse e si buttò sul gruppo. Se la cavarono con un pugno che toccò a Bonora e con un servizio da mettere in giro. In novembre ci fu l'assalto alla Ekberg e a Steel. Secchiaroli e compagni avevano saputo che il marito di Anita, quando beve è piuttosto eccitabile. Ormai, si può dire, lo provocarono un pò, mica tanto, appena quello che bastava per scatenare il carosello. Poi ci fu l'inseguimento di Walter Chiari con Ava Gardner; l'attore s'arrabbiò sul serio: c'è una foto di Chiari mentre si avventa su Secchiaroli che fa bella mostra di sè, nello studio di Fellini...».

Tazio Secchiaroli il re dei  "paparazzi"  di via Veneto: fotografi d'assalto che la notte cercavano di catturare scatti di personaggi famosi e venderli ai rotocalchi d'epoca

La "dolce vita", dunque, come un affresco cinematografico nato nella cronaca e che vuol essere una sorta di visione apocalittica di quello in cui la società sta andando incontro. «È uno strano film, il più difficile che ho immaginato finora. Andrebbe proiettato tutto insieme in una sola enorme inquadratura» spiega il regista quando ancora non ha iniziato a girarlo. E aggiunge: «Non pretende di denunciare, nè di tirare le somme, nè di perorare l'una o l'altra causa. Mette il termometro a un mondo malato, che evidentemente ha la febbre. Ma se il mercurio segna quaranta gradi all'inizio del film, ne segna quaranta anche alla fine. Tutto è immutato. La dolce vita continua, i personaggi dell'affresco continuano a muoversi, a spogliarsi, ad azzannarsi, a ballare, a bere, come se aspettassero qualcosa. Che cosa aspettano? E chi lo sa. Un miracolo forse. Oppure la guerra, i dischi volanti, i marziani».
È il 1959. Scrive Kezich:
«Fellini è inquieto. Si passa la mano nei capelli, sempre un pò troppo lunghi, come quando il segretario del Partito Nazionale Fascista ettore Muti gli ordinò di tagliarli durante un rapporto ai collaboratori del "Marc'Aurelio". Il regista compie trentanove anni tra due settimane e si arrabbia se i giornali lo definiscono "sulla quarantina". Per la verità ha un'aria molto giovanile. Negli ultimi mesi la preoccupazione per "La Dolce Vita" lo hanno fatto calare di peso, così il Fellini di oggi ricorda il giovanotto che faceva caricature ai soldati americani nella Roma del '44, finchè Rossellini venne a proporgli di scrivere, con lui e con Amidei, un documentario sulla fucilazione di don Morosini, che poi divenne "Roma città aperta"...».

Dopo il successo de "La Dolce Vita" al botteghino, le polemiche, le reazioni. Dirà Fellini che la reazione più curiosa era stata quella di Sophia Loren: «Dopo la proiezione è stata zitta, si è accoccolata nella mia macchina, come un gatto, poi mi ha detto: 'Ma poverino, cos'hai dentro?'». Con "La Dolce Vita" per la prima volta in un film apparivano "i travestiti", categoria delle trasgressioni sessuali fino ad allora rimasta nell'ombra. Un modo di raccontare la realtà, certo, ma come pretendere di farlo accettare all'Italia di allora? Racconterà Fellini a Kezich: «Quello che ricordo è un grande manifesto di una chiesa a Padova. Aspettavo una coincidenza ed ero uscito dalla stazione per fare quattro passi, volevo vedere il famoso caffe Pedrocchi. E invece capitai davanti a questa chiesa, non so quale fosse, con una facciata imponente e affisso su uno dei portali c'era un cartello enorme, un rettangolone listato a lutto. Avvertii qualcosa di familiare e avvicinandomi ebbi la sorpresa di leggere: 'Preghiamo per l'anima del pubblico peccatore Federico Fellini' scritto in lettere cubitali. L'invocazione, lo confesso, mi diede un brivido funesto; e insieme la sensazione anche comica, di averla fatta grossa». Il gesuita padre Trapani, sulla "Settimana del clero" si dichiara dello stesso avviso di coloro i quali avevano fatto affiggere quel cartello sul portone della chiesa padovana, e propone che: «Si celebrino messe di espiazione e di riparazione per i peccati commessi da tanti che hanno visto il film "La Dolce Vita"».
Un comunicato del
"Consiglio Araldico Nazionale" e della "Giunta Araldica Centrale del Corpo della Nobiltà", riunitisi a Firenze tuona: «Deploriamo il comportamento di quei nobili che hanno partecipato a manifestazioni cinematografiche in cui si dà motivo al pubblico di formulare errati giudizi lesivi al decoro della nobiltà romana».
L'assemblea generale dei parroci romani invia un telegramma al ministro Tupini in cui scrive:
«Vibrata è la protesta per grave offesa morale al carattere sacro della città di Roma» e aggiunge: «Preoccupati per il ripetersi di incresciosi fatti assolutamente controproducenti ai fini di moralizzazione del popolo, invochiamo efficaci provvedimenti». Non sarà questo l'unico messaggio di protesta indirizzato al titolare del dicastero dello Spettacolo, il quale, in quei giorni, come aveva previsto, ha un gran daffare per tenere a bada i più arrabbiati membri del governo e del suo partito (democristiano), specie dopo che "L'Osservatore Romano" è sceso in campo con un durissimo articolo.
È l'8 febbraio del 1960 quando il quotidiano della Santa Sede minaccia:
«Mentre la cronaca nera si sfrena una volta ancora, come sempre su episodi criminali e vergognosi della malavita, a Roma e a Milano, sullo schermo si sfrena la cinematografia,"La dolce Vita", fotografa quell'altra faccia proponendola a ben più vasto pubblico, con il pretesto ipocrita dei diritti dell'arte e persino a fine educativo. La critica ha agitato i suoi turiboli. Vi ha veduto valori trascendentali più che morali. Quella critica che non sa e che non osa affermare che il male, il delitto, il vizio ostentato sugli schermi , sviscerato nella sua psicologia, incarnato nei suoi protagonisti, porta alla distruzione della società».

A sx: Anouk Aimée e Marcello Mastroianni. Al centro: Fellini discute animatamente con Tullio Kezich . A dx: Fellini col suo grande amico Ennio Flaiano, sceneggiatore del film

Fellini aveva previsto la reazione e, prima che il film uscisse nelle pubbliche sale, lo aveva fatto vedere a coloro i quali avrebbero potuto influenzare il giudizio della censura. Scrive il critico Augusto Consulich: «Prima di presentare la sua nuova pellicola ai commissari di via della Ferratella, egli l'aveva fatta vedere ai dirigenti del Pen Club, ai Gesuiti della Golden Star Company, a giornalisti amici suoi e del governo, a scrittori 'integrati', a prelati d'alto bordo; si dice anche al capo dello Stato e alla sua consorte che allora erano Giovanni e Carla Gronchi. Si dice pure che alcuni religiosi, sconcertati dall'inusuale contenuto di alcune immagini del film, avessero chiesto al regista se egli intendesse con queste servire Dio o il demonio, ed è facile intuire quale sarà stata allora la risposta di Fellini. Ottenuti così gli indispensabili appoggi, Federico, coi censori, fu molto esplicito: 'Vi consegno la copia definitiva del film' disse loro, 'quello che c'era da tagliare, l'ho tolto io stesso. Vi prego quindi, di dire si o no. Risparmiatevi i se, i ma, i però. Sappiate che non rinuncerei a mezzo fotogramma'». Ma una ulteriore censura ci fu, e fu l'unica che pretese il produttore, dopo che gliene aveva fatta richiesta il ministro dello Spettacolo. Si trattava della scena in cui parlava una prostituta, in casa della quale si erano introdotti il protagonista del film Marcello (Mastroianni) e la sua compagna ninfomane Maddalena (Anouk Aimée) per fare l'amore sul suo letto. Accorgendosi che l'abituro in cui abitava era allagato, la poveretta se la prendeva con l'ente assegnatario e come è umano che avvenga in casi del genere, concentrava le su ingiurie , non su qualcosa di astratto, bensì sull'incaricato dell'ente stesso, e lo chiamava col gentile epiteto di "er frocio dell'INA-Casa". Il produttore aderì alla richiesta, Sicchè dopo alcuni giorni un'unghia aveva grattato via dalla colonna sonora delle copie in circolazione la parola INA-Casa, lasciando solo "er frocio".
Per fortuna di Fellini il film non fu messo sotto chiave dai censori, ma vietato ai minori di diciotto anni. Soltanto il sindaco di Arenzano, l'avvocato Filippo Gramatica, si diede da fare al punto che nella cittadina ligure "La Dolce Vita" fu tenuta lontana dai cinema. Eppure il regista, assediato dai giornalisti, interrogato sul significato della sua enigmatica, sconvolgente opera, non faceva che dire:
«Non ho tentato di stupire o di fare il moralista. Vorrei che si dicesse 'Ma guarda un pò com'e sincero Fellini'». Dirà Ennio Flaiano, sceneggiatore del film con Tullio Pinelli e lo stesso regista: «In Fellini i temi essenziali: il conflitto tra la vita e il sogno, l'incomunicabilità tra esseri umani, l'amore rifiutato, ritornano in ogni film e siano all'impostazione netta e drammatica di "La Dolce Vita" dove la tenerezza sovrasta persino l'angoscia. Il pregio di Fellini è di non dimenticare che gli uomini sono una somma di bene e di male, di caduta e di redenzione...».
Compreso appieno o no, il film avrà un incasso che incoraggerà registi e produttori di una grande stagione del cinema italiano: due miliardi di lire in pochi mesi. Ma più che gli incassi, Fellini ricorderà un episiodio dei giorni in cui tutto lo portava a dubitare del successo de "La Dolce Vita". In una stazione ferroviaria, un portabagagli con fare deciso, gli si era avvicinato urlandogli:
«Lei è Fellini?» il regista lo aveva guardato con spavento, senza rispondere. Convinto di non aver sbagliato persona, il portabagagli gli aveva detto: «Bravo!». Un sollievo, per Fellini, il quale aveva temuto che quell'uomo volesse sputargli in faccia.