IL MALSANO STAGNO DEL VELABRO E LA CLOACA di Claudio Di Giampasquale

Narra la leggenda che poco meno di tremila anni fa, nei pressi di un'area pianeggiante situata tra il Tevere e i colli Campidoglio e Palatino, si sarebbe arenata in un'ansa del fiume sacro la cesta contenente i gemelli Romolo e Remo abbandonati dalla loro mamma. Tutt'intorno nelle adiacenze era solo una zona paludosa, intricata di canneti e da una vegetazione che si adattava a quell'ambiente difficile, con un terreno fangoso e asfittico dove spesso la febbre tifoide uccideva la poca gente che osava abitare lì o nei paraggi, era una malattia che uccideva così velocemente da impedire la dispersione del bacillo, una delle tante malattie che colpivano allora gli esseri umani. Vi erano un'infinità di topi, zanzare, scorpioni d'acqua, ditischi e altri animali selvatici che proliferavano soprattutto lungo un piccolo corso d'acqua stagnante nel centro della vasta spianata: questo fiumiciattolo stagnante era il «Velabrus». All'epoca quel territorio veniva utilizzato per seppellire i morti degli abitanti dei piccoli villaggi di capanne che sorgevano sulla cima dei colli. Nessuno allora avrebbe immaginato come quell'enorme malsana palude si sarebbe trasformato e che importanza avrebbe avuto per la nascita e lo sviluppo della civiltà nel mondo.

Passò qualche secolo e quei villaggi di capanne gradualmente s'accorparono, formando un'unico centro abitato che progressivamente divenne un agglomerato urbano con tanto di sovrano al governo. Un grande villaggio ben organizzato in continua crescita a cui sin dagli albori venne dato il nome di Roma probabilmente in onore del suo suo primo "re" ossia proprio quel Romolo salvato anni prima da una lupa. Poi quel villaggio divenne una grande città, che crebbe al punto di conquistare gran parte del mondo conosciuto. Sino a diventare la "città eterna" i cui miti e le leggende come quella del suo primo sovrano e di suo fratello Remo, furono oggetto di sacralità nel corso dei secoli, riflettendo l'evoluzione della società e della "cultura occidentale".

Ma torniamo alle origini: all'antica palude del Velabro. Fu la geniale costruzione della «Cloaca Maxima» e il suo sistema fognario a bonificarla, convogliando dentro il fiume Tevere le acque che da secoli continuamente s'accumulavano in questa valle ristagnando, formando il maleodorante acquitrino «Velabrum» spesso talmente ampio che per traghettarlo per raggiungere il contiguo Campo Boario dove si allevava e commerciava bestiame a uso domestico, bisognava ricorrere all'uso di piccole imbarcazioni. Il progetto originario della rete di bonifica fu voluto dal quinto sovrano Lucius Tarquinius Priscus che incaricò al piano di fattibilità fidati ingegneri idraulici etruschi operanti nella sua nativa città Tarquinia. La realizzazione avvenne poco meno di cinquecento anni prima della nascita di Cristo per volere dell'ultimo re della monarchia romana, Lucius Tarquinius Superbus. 

La Cloaca Maxima fu un'opera maestosa che sfruttò le antichissime conoscenze ingegneristiche della civiltà villanoviana-etrusca-romana, come l'uso dell'arco a volta, per garantire la stabilità e la durata della struttura. La sua costruzione fu realizzata con blocchi di pietra gabina e successivamente fu realizzata la volta in conci di tufo litoide. Fu un'infrastruttura che contribuì alla sanità e alla vivibilità pubblica, fondamentale per la crescita e lo sviluppo di Roma e della civiltà romana. Nel corso dei secoli subì diverse modifiche e ampliamenti per adattarsi alle esigenze della città in crescita. 

Dopo il prosciugamento e il risanamento della valle del Velabro, fu possibile pavimentare in terra battuta l'intera zona e dare inizio alla sua straordinaria storia. La città aveva trovato il centro della sua vita politica e religiosa ma anche il fulcro della sua economia con mercati e botteghe. Durante i secoli successivi vennero edificate molte costruzioni e nuovi importantissimi edifici. Nacquero e si svilupparono il Foro di Romano e i fori imperiali. Nella tarda antichità, vicino al confine con il Campo Boario, sorse l'Arco di Giano (Arcus divi Constantini). L'area continuò ad avere funzioni commerciali fino al sesto secolo dopo Cristo quando fu registrata una catastrofica alluvione del Tevere nel 589 che portò all'elevazione del terreno. In seguito, sotto lo Stato Pontificio, nella zona del Velabro nacquero istituzioni ecclesiastiche e assistenziali, come la Chiesa di San Teodoro (Titolo Cardinalizio) e la Chiesa San Giorgio in Velabro (Diaconale). Poco dopo, il nome fu cambiato in "Velum Aureum", che mantenne per tutto il Medioevo. Sorsero tutt'intorno borghi e villaggi popolari. Poi avvennero nello scorso secolo gli "sventramenti" e le demolizioni che cambiarono completamente la faccia della zona. Il Velabro oggi è un'area storica d'enorme interesse turistico, tra le tantissime meraviglie acheologiche e artistiche da visitare qui, spiccano il "Tempio di Ercole Vincitore" e il "Tempio di Portuno". 

La Fontana dei Tritoni, opera di inizio diciottesimo secolo di Francesco Carlo Bizzaccheri; dietro il Tempio di Ercole Vincitore

Ecco come appariva nel 1814 la zona del Velabro in un'opera pittorica dell'artista danese Christoffer Wilhelm Eckersberg