LE SPETTACOLARI LATOMIE DI SALONE di Claudio Di Giampasquale
A poca distanza da questo posto scorre il fiume Aniene (dal latino "Anio"). Nel film Ben Hur, fu qui che il regista William Wiler girò le spettacolari scene del lazzaretto. Precisamente in quest'area dell'«agro luculliano» ha origine l’Acquedotto Vergine (Aqua Virgo) da sorgenti poste presso l’ottavo miglio della via Collatina, nell’attuale località di Salone. Il percorso terminava in Campo Marzio, era prevalentemente sotterraneo di oltre venti chilometri. Partendo quindi da questa zona a sud-est di Roma, l'acquedotto entrava in città da nord-est, dopo aver effettuato un ampio arco.
Seguiva, la via Collatina fino alla località di Portonaccio ove attraversava la via Tiburtina. Poi oltrepassava su arcate il Fosso della Marranella alla confluenza con l’Aniene. Qui sono visibili le vestigia di un ampio tratto in elevato, lungo trecentoventi metri realizzato in opera reticolata di tufo. Poi l’Aqua Virgo si dirigeva verso la Nomentana e la Salaria quindi, piegando verso sud, attraversava le zone di Villa Ada e dei Parioli, passando sotto il ninfeo di Villa Giulia, ed entrava in città in prossimità del Muro Torto, proprio all'altezza di piazza di Spagna, lì in un percorso sotterraneo, poi usciva sopratterra e continuava su arcate sopraelevate delle quali sono oggi visibili, oltre ai resti di via del Nazareno, anche quelli in via del Bufalo, per zampillare infine in maniera fastosa, dalle bocche della Fontana di Trevi.
DAL Vulcano Sabatino, all'epoca di Albalonga, prima che nascesse Roma
La periferia di Roma è figlia dell'antico e meraviglioso agro romano. Purtroppo oggi una frontiera dove spesso s'incontrano e stridono storia e presente, urbanizzazione selvaggia e campagna, selvatico e cemento. Nella parte est in direzione di Tivoli e delle rovine dell'antichissima Gabi che secondo Dionigi di Alicarnasso faceva parte della «Lega Latina», lungo la via Collatina sorgono le «Latomie di Salone» ossia antiche cave di tufo rosso ove in mezzo alla natura selvaggia la luce filtra dalle fenditure presenti nella roccia e i raggi s'intersecano, creando dei meravigliosi chiaroscuri che si stagliano sui profili rigidamente lineari in cui è lavorato il tufo e si riflettono sui tre caratteristici laghi verde smeraldo. Un luogo straordinario, fuori dal mondo reale di oggi.
La via Collatina è un'antica strada romana che dall'urbe, uscendo dalle mura Aureliane presso Porta Tiburtina (nel primo tratto quasi parallelamente alla consolare via Tiburtina) raggiungeva la cittadella di Collazia (ove nel tredicesimo secolo fu edificato il Castello di Lunghezza) percorrendo dal centro di Roma poco meno di venti chilometri. Il primo tratto dell'antica strada non esiste più, corrispondeva nel quartiere di San Lorenzo alle attuali via dei Falisci e via degli Apuli, in direzione dell'odierno scalo ferroviario, dove oltrepassava il fosso della Marranella per proseguire nel quartiere di Casal Bertone sul percorso di via del Borghetto Malabarba. Questo tracciato, rimasto fino alla seconda metà del diciannovesimo secolo, era noto come via di Malabarba. Il percorso moderno inizia invece da via Prenestina, nel quartiere di Villa Gordiani, dopo l'omonimo parco.
La piccola cittadella di Collazia sorse prima di Roma su una rupe di tufo. Secondo la tradizione sarebbe stata una colonia di Albalonga, fondata da Ascanio figlio di Enea. Nel racconto di Tito Livio nella sua opera
«Ab Urbe condita libri CXLII» la cittadella fu tolta ai Sabini dal quinto re di Roma Lucius Tarquinius Priscus, e che il sovrano capitolino la fece governare da suo nipote Arunte Tarquinio detto "Egerio". Qui nacque
il primo console di Roma Lucius Tarquinius Collatinus
figlio di "Egerio" che diede il nome alla via che la collegava la cittadella fortificata di Collazia all'urbe. Durante le epoche repubblicana e imperiale, i costruttori degli edifici di Roma sfruttarono le vaste cave d’estrazione di tufo presenti nella zona, che veniva trasportato in città per mezzo di robuste imbarcazioni mercantili piatte sul fiume Aniene, affluente del Tevere.
I giacimenti di "rocce piroclastiche" della zona, frutto dell'antica azione del Vulcano Sabatino, sono lì ancor prima della nascita della Cittadella di Collazia (che, come detto sopra, nacque prima di Roma). Costituite da una serie di colline con pareti a strapiombo (tagliate nei secoli a mestiere da sapienti cavatori) di «lapis ruber» (tufo lionato rossiccio). Fornirono gli architetti, gli ingegneri e i costruttori romani per secoli, contribuendo allo sviluppo architettonico della città eterna. I romani le chiamavano «latomiae e tōphus». Nell’antica Roma col termine "latomia" s'indicavano genericamente le cave, o le grotte o catacumbae nelle quali venivano anche condannati ai lavori forzati i delinquenti, i prigionieri di guerra o i nemici politici. Con la caduta della città dei Cesari queste cave vennero abbandonate. La cittadella di Collazia nel nono secolo si trasformò in un monastero fortificato abitato dai monaci Benedettini. I cavatori delle «latomiae» ripresero la loro attività quando tornò la richiesta di materiali edili.
Dopo vari passaggi di possesso, anche fra nobili famiglie, nel duecento fu edificata nell'ampio territorio (da parte dei proprietari, Baroni de' Rusticis) l'alta Torre della Rustica. Con la successiva frammentazione dell'immensa proprietà si diede il via ad una proliferazione di piccoli castelli (casali fortificati, ancora oggi visibili). Il "feudo Benedettino" gradualmente venne ulteriormente fortificato, trasformandosi in un castello che prese il nome dal villaggio agricolo che due secoli dopo la caduta di Roma sorse sulle vestigia esterne di Collazia, ossia: "Lunghezza", il maniero ancora oggi comprende la costruzione principale, i giardini e un parco di circa tre ettari. Nel dodicesimo secolo, durante il fenomeno di «incasalamento» dell'agro romano che ebbe come principali attori le élite ecclesiastiche, aristocratiche e mercantili della città divenuta pontificia, sorse sempre in zona, nei pressi del Castello di Lunghezza, proprio a ridosso delle cave di tufo, un grande casale agricolo che fu chiamato «campus Solonis» ed anche «castellum ulmetum».
Il castello di Lunghezza è legato alla nascita di Roma. Il primo nucleo venne costruito sui resti di un insediamento paleolitico e di una struttura fortificata detta Collazia
Trascorsero i secoli e si sa, il lessico in continua evoluzione nei secoli, si trasforma arricchendosi o impoverendosi di continuo, attraverso neologismi che riflettono l'epoca che li genera: la "fusione" del primo dei due nomi (campus Solonis) col termine latino con cui i romani chiamavano le cave (latomiae e tōphus) ribattezzò a nuovo nome le cave lungo l'antica via Collatina col termine «Latomie di Salone». Dal diciottesimo secolo inizia, per questo strano e particolare territorio, un certo interesse di cartografi, incisori e viaggiatori colti di ogni parte d'Europa: dal 1815 al 1890 ogni 21 aprile presso le cave e nella vicina Tor Cervara si teneva la
"Festa degli artisti stranieri" dei quali anche a quell'epoca non pochi risiedevano nella città dei sette colli.
come visitarle al giorno d'oggi (con attrezzatura da trekking)
Le «Latomie di Salone» sono uno dei luoghi in assoluto più misteriosi e caratteristici nei pressi della città ma anche, vuoi per la natura del terreno e la solitudine, uno dei posti più emozionanti. La visita di quest'inquietante territorio lascia addosso un senso di meraviglia ma anche di disagio forse per quelle volte ciclopiche che gravano sui nostri corpi in proporzione piccini.
Oggi queste antichissime cave sono, stranamente, un luogo poco conosciuto e quasi abbandonato, tra capannoni industriali e l'autostrada A24, dalla quale parte dell'area è visibile per un breve tratto, viaggiando verso Roma: sulla destra è possibile osservare il loro strano paesaggio originalissimo, quasi irreale, costituito da pareti scoscese con enormi antri scavati nel tufo, immerso nella natura. Tutt'intorno dei bacini di acqua color verde brillante. Nei pressi trovano posto alcune attività di ristorazione e pesca sportiva nei tre laghetti artificiali che le circondano.
Per visitarle oggi, arrivando motorizzati, è consigliabile il grande parcheggio nei pressi di un importante marchio che vende articoli sportivi in via di Salone 256. Siamo in una zona periferica chiamata "Settecamini" (toponimo relativamente recente: metà diciannovesimo secolo) che in epoca medievale era detta dai viandanti romani "Campo dei Sette Fratelli" o "Forno dei Septe Fratri" (dal latino "frater" fratello) in relazione alla "leggenda di santa Sinforosa" e dei suoi sette figli (fratri) fatti uccidere dall'imperatore Adriano (Crescente, Eugenio, Giuliano, Giustino, Nemesio, Primitivo e Statteo). Ebbene, questo è il punto di riferimento per iniziare il percorso.
Si segue il sentiero che supera un ponte e poi, a destra, si trova l'accesso con una sbarra, il sentiero, inizialmente asfaltato e poi sterrato, scende verso il basso, addentrandosi in una zona verde e cespugliosa. Purtroppo il percorso mostra una situazione di triste degrado e incuria. Addentrandosi nel verde la situazione migliora, fino a raggiungere il cuore delle cave.
Qui i rumori dell’autostrada restano intrappolati al di sopra delle chiome degli alberi. La vegetazione si dirada in modo improvviso e ci si ritrova catapultati in un ambiente lunare, dominato da immensi monoliti rossicci squadrati e levigati, in un gioco di geometriche sculture rupestri. Sui "menhir" di tufo. le tracce degli strumenti degli antichi cavatori che hanno lavorato quelle rocce sono ancora ben visibili, viene spontaneo toccarli. Il sentiero scende ancora, si lascia alle spalle questo piccolo deserto rosso e ci si inoltra di nuovo in una fitta vegetazione e poi ci si ritrova nel fulcro delle «Latomie di Salone».
Il panorama diventa irreale, nei maestosi costoni di tufo si aprono spelonche dagli alti soffitti, molte delle quali ostruite dai rovi, altre accessibili. Lo scenario sembra quello d'un altro pianeta, si ha l'impressione di essere catapultati improvvisamene in un set cinematografico di fantascenza. Il gioco di luci e ombre è spettacolare, i raggi solari filtrano dalle fenditure presenti nella roccia creando dei meravigliosi chiaroscuri che si stagliano sui bastioni rigidamente lineari in cui è lavorato il tufo. Queste grotte proseguono, perdendosi nella vegetazione per poi riaffiorare rincorrendosi fino a tuffarsi nei laghetti poco lontani che da millenni si abbeverano d’acqua dolce il cui colore verde smeraldo è causato dagli stessi raggi solari, che riscaldandone la superficie generano lo sviluppo di microscopiche alghe unicellulari, pluricellulari e filamentose.
La regolarità degli ambienti, la presenza di tramezzature, nicchie, coppelle e la precisione con cui sono stati realizzati alcuni archi di collegamento, fanno supporre la possibile suddivisione originaria (in tempi precedenti all’utilizzo in qualità di cava) in ulteriori ambienti interni. A conferma di ciò, il ritrovamento di frammenti di vasi, monete e perni metallici suggerirebbe un antico uso abitativo. Come detto, questo luogo fu sfruttato per estrarre la pietra che contribuì a determinare la grandezza di Roma.
Si ha la certezza che nel settanta dopo Cristo proprio qui venne estratto il materiale costruttivo per l’edificazione dell’Anfiteatro Flavio (Colosseo), del Pantheon e di altre maestose opere architettoniche dell'antica Roma.
L’uomo popolò quest'antica area vulcanica del
«Latium vetus» fin dall’epoca protostorica. Nel 1972, durante i lavori di costruzione dell’autostrada A24 fu rinvenuta in zona una necropoli composta da ben quattrocentodiciotto tombe, tutte realizzate tra l'ottavo e il terzo secolo avanti Cristo. Le sepolture, ancora intatte, hanno restituito agli archeologi degli splendidi corredi funebri. Nel 2009 si sono sommati a questa prima eccezionale scoperta altri rinvenimenti che hanno spinto gli studiosi a identificare quest'area come l’antica cittadella di Collazia. Fra i reperti raccolti ci furono tre corredi principeschi: uno maschile e due femminili. All’interno della sepoltura del principe sono stati rinvenuti anche un carro da guerra, una spada e uno scettro, attualmente custoditi nel
"Museo Nazionale Romano"
presso le Terme di Diocleziano. Infine, si narra che questo fu un importante sito di culto dedicato a divinità dai poteri terapeutici, come spesso accadeva nell’antica Roma per gli ipogei situati nei pressi di sorgenti e falde acquifere. E che queste cave furono meta per antichi e suggestivi rituali dedicati al dio Mitra.
È consigliato di andare in gruppo, magari con persone esperte di escursionismo anche se i percorsi sono assai agevoli. Però bisogna fare attenzione dentro le grotte, in quanto in alcuni punti alcune di esse hanno segni evidenti di possibile crollo.