RITA ATRIA, UNA STORIA CADUTA NELL'OBLIO di Claudio Di Giampasquale

Non molto tempo fa, transitando alla guida della mia auto da viale delle Provincie verso piazza Bologna, immettendomi nella grande piazza dedicata al capoluogo emiliano, proseguendo in senso circolare verso viale XXI Aprile, superati gli imbocchi a destra di via Lorenzo il Magnifico e di via Michele Di Lando, mi sono fermato al semaforo rosso all'altezza del successivo imbocco in direzione di via Livorno. Nell'attesa del verde, mi sono voltato a sinistra verso il giardino al centro dell'ampia rotonda, m'ha colpito poco lontano un murale realizzato su un'ampio pannello posto tra gli alberi: su un fondo tinto di verde e rosso spicca il disegno stilizzato del viso d'una giovane donna e due scritte, quella a sinistra un nome, Rita Atria, a destra una frase scritta in bianco con evidenti caratteri stampatello: «Se ognuno di noi prova a cambiare forse ce la faremo». Il tutto m'ha incuriosito. Stimo quel contesto di Roma, adoro piazza Bologna, si respira un mix di signorilità e di vivacità con i tanti ragazzi universitari che la animano dall'ora dell'aperitivo sino a notte fonda nei caratteristici locali, in particolare lo storico chiosco "Casina Fiorita" che è lì da lunghissima data e ne ha viste passare di generazioni di studenti. Prima del verde, col mio smartphone, ho scattato velocemente una foto a quel murale per ricordarmi di quel nome, di quella frase; per saperne di più.

Seguendo la mia curiosità, a distanza di giorni, nel tempo libero ho iniziato una ricerca su Rita Atria, non sapevo chi fosse (forse non ricordavo), ebbene ho scoperto una storia che m'ha molto toccato, iniziata in Sicilia nel Trapanese, conclusasi tragicamente a Roma. Inoltre ho scoperto la paternità dei murales di piazza Bologna (ce ne sono diversi) e l'esistenza di altre bellissime opere di Paolo Colasanti noto come «Gojo» uno degli street artist più quotati del panorama nazionale. Romano, appassionato di mitologia, oggi dietro a moltissimi progetti di riqualificazione nella capitale e non solo.

CHI È Rita Atria E Lo scenario in cui crebbe

Nell'entroterra occidentale della Sicilia, il piccolo paese medievale di Partanna situato tra i fiumi Modione e Belice, si trova a circa dodici chilometri a nord di Selinunte, Porto Palo e della "Spiaggia della Riserva del Belice" (sud ovest della Sicilia) ed a meno di sessanta chilometri da Marsala situata all'estrema costa occidentale dell'isola. Siamo nel cuore d'un territorio che nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968 fu colpito da un violentisimo terremoto che devastò la maggior parte dei comuni della valle, tra cui Partanna. La ricostruzione successiva al sisma diede luogo a uno degli scandali più emblematici del secondo dopoguerra e a decenni trascorsi dall'evento, nonostante le faraoniche opere realizzate e l'enorme dispendio di fondi pubblici, i danni inferti da quel terremoto, ancora oggi non possono dirsi completamente sanati.

Ebbene, dopo circa cinque anni e mezzo da quella terribile calamità, esattamente mercoledi 4 settembre 1974, a Partanna venne alla luce una bimba secondogenita di mamma Giovanna e papà Vito, venne chiamata Rita, mentre suo fratello era stato chiamato Nicola. La piccola Rita crebbe in un territorio molto particolare. La mafia, dall'inizio dell'Ottocento, ancora a oggi è un fenomeno fortemente collegato ai territori del Belice. Il "sistema dei latifondi" iniziò col dominio dell'economia e della società delle province di Palermo, Trapani, Agrigento e Caltanissetta. Questo sistema era caratterizzato dallo sfruttamento dei contadini e dalla presenza di potenti signori locali, che favorirono la nascita di gruppi di potere illegali. Le organizzazioni mafiose tessevano legami con la politica, creando scambi di favori e voti per rafforzare la propria influenza e il proprio potere. Il terremoto del 1968 devastò tragicamente non solo i territori e le case, ma ruppe quegli equilibri e le "particolari abitudini" che in quasi due secoli s'erano consolidate. La successiva gestione della ricostruzione fu terreno fertile per le infiltrazioni mafiose da tutta la Sicilia e non solo. Vennero affidati appalti a imprese collegate a Cosa Nostra. Oltre all'agricoltura, alla pastorizia e alla pesca, le mafie iniziarono a interessarsi a nuovi settori come la speculazione edilizia, il controllo degli appalti pubblici e il traffico della droga. 

A Partanna, Vito Atria il papà di Rita, ufficialmente allevatore di pecore, in realtà era un piccolo boss locale, un uomo rispettato e temuto. Ecco, la piccola Rita crebbe in quest'ambiente "discutibile" che da piccolo centro agreste e di pastorizia si trasformò gradualmente in un luogo di traffico di denaro proveniente dai nuovi centri d'interese di Cosa Nostra.
Inoltre, lo sfacelo del sisma e la conseguente paventata ricostruzione, contribuirono insieme all'espansione internazionale del narcotraffico (nonché allo sviluppo della mafia siciliana in America) all’ascesa al potere dei Corleonesi. Diversi centri a sud di Corleone tra cui Partanna, Alcamo e altri comuni del Belice, funsero da scenario alle lotte per il potere tra vari clan rivali. 
Vito Atria era un mafioso vecchio stampo, faceva parte di quella mafia che sussurrava alla politica ma che non voleva sporcarsi le mani con la droga e questo, all’epoca, significò mettersi contro i Corleonesi che stavano invadendo il trapanese di raffinerie d'eroina. Don Vito era un boss secondo i vecchi costumi, di quelli che confondevano i diritti dei cittadini con favori, che mantenevano l’ordine nella comunità e tenevano a bada le masse con le buone maniere, il rispetto ma spesso anche "col bastone". Alla metà degli anni Ottanta i tempi cambiarono. Col narcotraffico emersero nuovi affari, decisamente più redditizi.

L'assassinio del padre e del fratello di Rita

Con l'avvento del penultimo decennio dello scorso secolo, iniziò una forte instabilità interna all'organizzazione mafiosa, sempre più scossa dagli enormi interessi che scaturivano dal traffico internazionale d'eroina e di altri stupefacenti. Delle nuove ambizioni della fazione di Corleone capeggiata da Totò Riina, Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella, si cominciò a temere. Fu allora che divenne incontrastata l'ascesa dei "Clan dei Corleonesi", i quali imposero a tutti i clan Siciliani il proprio potere criminale con una marea di omicidi. Furono gli anni della mattanza. Tra le tante vittime (la lista è lunghissima) caddero personaggi come Pio La Torre principale artefice della legge Rognoni-La Torre e il generale dell'Arma dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa. 
Sabato 9 novembre 1985 si celebrano nella Chiesa Madre di Partanna le nozze di Nicola Atria (figlio maggiore di don Vito) e la diciottenne Piera Aiello. Come in un libro di Mario Puzo nei giorni e negli anni che seguirono, in quella parte della Sicilia successe di tutto. Don Vito Atria venne barbaramente ucciso nove giorni dopo il matrimonio di suo figlio, fu vittima d'un'agguato dei sicari del Clan dei Corleonesi, ormai giunti ai vertici di Cosa Nostra. Era lunedi 18 Novembre. La piccola Rita, aveva soltanto undici anni, era una bambina molto attaccata al suo papà, non era in grado di capire chi realmente fosse. Don Vito era il suo eroe. 

Subito dopo la morte del boss Atria, il suo erede Nicola prese in mano tutti gli interessi e le attività del genitore ed assunse il ruolo di capofamiglia. L’amore e la devozione di Rita, nel dolore per la perdita di suo padre con il quale costruiva fortezze con coperte e cuscini, creava progetti con le costruzioni, faceva lunghe passeggiate all'aperto, da cui prima d'addormentarsi ascoltava fantastiche storie, si riversò su quell'unica figura maschile a lei vicina e sulla giovane Piera sua cognata. 
Passò qualche anno e Rità "divenne signorina", entrò nella fase della pubertà e dello sviluppo femminile. Il rapporto con suo fratello Nicola divenne intenso e "complice" al punto da trasformare la “picciridda” in confidente di lui. Nicola era considerato un "pesce piccolo" non di certo un vero "padrino" (nel senso tradizionale dell'accezione) come lo era suo padre. Aprì una pizzeria, e contemporaneamente dietro le quinte portò avanti anche il traffico della droga. Un doppio gioco che rendeva. 
In totale empatia con Rita, cercò di renderla consapevole della realtà. Le rivelò i nomi delle persone coinvolte nell’omicidio del loro padre, il movente, chi comandava ora a Partanna e chi decideva le sorti del bene o del male. Nel frattempo la ragazza si fece un fidanzatino, Calogero Cascio un giovane del suo paese, che di mestiere non era di certo "chierichetto" visto che s'occupava di raccolta del pizzo. Anche Calogero la mise a conoscenza di episodi di malavita che contribuirono non poco ad aprirle gli occhi.
Il 24 giugno 1991 nella pizzeria di Nicola Atria irruppero all'improvviso alcuni uomini a volto scoperto armati di fucile a canne mozze, era di lunedi e la sala era semivuota. Alla vista del bersaglio, uno dei membri del commando, prima che venissero premute all'unisono le leve di scatto delle lupare, disse ad alta voce, nella "tipica inflessione sicula":
«Nicola Atria» immediatamente poi deflagrò assordante una scarica di colpi che devastò il corpo della vittima. Un regolamento di conti in "emblematico" stile mafioso. Piera Aiello la giovane sposa di Nicola, in fondo alla sala assistette atterrita a quella scena disumana. Lo shock fu grande. Conosceva perfettamente gli assassini, che avevano agito incuranti dei pochi presenti, certi di terrorizzare, al punto d'indurre come da prassi all'omertà. Tuttavia Piera dopo pochi giorni, ruppe coraggiosamente gli schemi omertosi e decise di denuciare gli assassini facendo nomi e cognomi. Venne immediatamente trasferita in una località segreta insieme alla piccola Vita figlia sua e di Nicola. Le due spariranno per anni, lo Stato assegnerà loro una nuova identità, Piera inizierà in segreto a collaborare con la giustizia, in particolare col giudice Paolo Borsellino.

La Picciridda e lo "zio Paolo" il giudice

Quando Rita venne a sapere della morte di suo fratello, quasi impazzì dal dolore. Rimase a Partanna sola, rinnegata dal fidanzato perché cognata d'una pentita. Con sua madre Giovanna Cannova da quando divenne ragazza non ebbe mai un buon rapporto si sentiva troppo diversa da lei. Inoltre dopo la morte di suo fratello e le decisioni di sua cognata, mai sopportò l'ipocrisia della genitriche che lamentava il perduto onore della famiglia a causa di Piera, a cui Rita voleva molto bene. Era una diciassettenne che s'affacciava sul palcoscenico della vita e il "biglietto d'entrata" che stava pagando aveva un prezzo altissimo, sentiva ormai lontani gli spensierati giorni della sua infanzia. Rendendosi conto dell'assurdo convenzionalismo mafioso che la circondava, coltivando dentro di sè un irrefrenabile desiderio di vendetta e di rivalsa su quel mondo vigliacco in cui non aveva scelto di nascere, ebbene: decise di rifiutarlo.   
Dopo la scomparsa di Piera e della piccola Vita ormai non si fidava più di nessuno. Trascorsero per lei giorni, settimane, mesi orribili. Non sapeva più chi fosse, dove fosse e perchè era venuta al mondo. La coscienza la spinse a seguire l’esempio della moglie di suo fratello, in segreto s'informò su come fare per chiedere allo Stato giustizia per l’omicidio del padre e di Nicola. La vendetta tanto desiderata, a poco a poco, si trasformò in
“voglia di vedere altre donne denunciare e rifiutare quel sistema di vita, quelle assurde regole dell'omertà, in sostanza: d'aborrire la mafia”
Una mattina di novembre del 1991 la giovane, armata di coraggio, salì su un torpedone della linea Partanna/Marsala per recarsi in via del Fante negli uffici della Procura della Repubblica presso il Tribunale. Era venuta a sapere d'un magistrato che avrebbe potuto aiutarla, il suo nome era Paolo Borsellino. Era riuscita a ottenere un appuntamento con lui e Borsellino sapeva chi fosse e l'attese con impazienza. Quella mattina insieme al compianto giudice palermitano l'accolsero i membri del suo staff: la dottoressa Alessandra Camassa, la dottoressa Morena Plazzi e il dottor Massimo Russo. Il pull di magistrati raccolse le dichiarazioni della diciassettenne. Da quel giorno nacque un rapporto di stretta collaborazione tra Rita Atria e Paolo Borsellino che, sapientemente, riuscì a conquistare la fiducia della ragazza e farsi raccontare tutte le confidenze fattele dal fratello. Il giudice a sua volta la rassicurò a proposito di Piera e della nipotina, le raccontò che aveva trovato per loro una sistemazione e un lavoro per vivere serenamente. Rita Atria era una ragazza sensibile e sentì di potersi fidare, nonché affidare. Si sentiva sola. Borsellino organizzò immediatamente un piano di protezione per la ragazza. Rita fu immediatamente trasferita in segreto a Roma e messa sotto scorta. Iniziò a vivere nella capitale con una falsa identità, lontana dal suo mondo. Il magistrato trovò prontamente il modo per rimanere ogni giorno in contatto con lei, ottenendo così gradualmente tutte le informazioni che gli servirono a far luce sugli ingranaggi che regolavano le cosche mafiose del trapanese e della Valle del Belice. Delineando gli scenari della faida sanguinaria tra la famiglia Ingoglia e gli Accardo. Le dichiarazioni di Rita, congiuntamente a quelle di sua cognata Piera consentirono poi d'avviare un'indagine sul discusso operato dell'onorevole Vincenzino Culicchia sindaco di Partanna per più di trent'anni. L'eroico giudice palermitano divenne per Rita, lo zio Paolo, un uomo che le infuse un enorme coraggio e fiducia per la giustizia. Inoltre in quei mesi a cavallo tra 1991 e il 1992 la giovane conobbe e s'innamorò di Roma. Usciva sporadicamente e quando lo faceva era rigorosamente sotto scorta (che la seguiva a distanza per farla sentire libera) si camuffava il più possibile, perchè ciò la faceva sentire più tranquilla, era un'istinto naturale, ma sotto quest'aspetto si rendeva conto che girare in questa nuova, immensa e meravigliosa città era "come sentirsi un ago in un pagliaio" e la folla che la circondava infondeva in lei un enorme senso di sicurezza. Capì subito che a Roma difficilmente s'incontra consecutivamente per caso la stessa persona. Sulla metro, sugli autobus, in giro per il centro, Roma era per Rita il paradiso, il senso di libertà, Iniziò ad amarla. Eppoi a Roma c'erano tanti bei ragazzi con cui giocare con gli sguardi, ma con discrezione. Zio Paolo e i suoi collaboratori poi le davano tutte le istruzioni per muoversi con cautela. Comunque le rare volte che si muoveva non era mai sola. 

Rita Atria a 17 anni, poco prima del suicidio nel 1992

"Zio Paolo", il giudice in un ritratto di Giovanni Passaro

La cognata Piera nel 2018 quando divenne deputata

Rita amava scrivere e quei primi tempi della sua nuova vita scrisse molto. Rimane ancora oggi emblematica questo suo bel ragionamento che venne ritrovato scritto nelle pagine del suo diario: «Bisogna rendere coscienti i ragazzi che vivono nella mafia come me, che al di fuori c’è un altro mondo, fatto di cose semplici ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, e non perché sei figlio di quello o perché hai pagato per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare? Se ognuno di noi prova a cambiare forse ce la faremo».
Arrivò l'estate, giunse il 23 maggio un giorno maledetto per la giustizia, Rita rimase impietrita quando seppe della spaventosa strage di Capaci. Non aveva mai conosciuto il giudice Giovanni Falcone ma sapeva bene della profonda amicizia che c'era tra lui e lo zio Paolo. Passarono due mesi in cui la ragazza visse nel terrore che succedesse qualcosa al suo tutore. Ormai s'era talmente affezionata a lui che non riusciva a immaginare la sua vita senza il riferimento dei suoi consigli, della sua saggezza, della sua lealtà, della sua incredibile calma e razionalità. Ogni volta che lo sentiva lo supplicava di stare attento, sapeva che anche lui viveva sotto scorta. Iniziò a pregare con tutta sè stessa il Signore affinchè proteggesse lo zio Paolo, lo faceva nella sua casa rifugio e in chiesa, ogni volta si recava in una diversa, Roma era piena di chiese.

Purtroppo arrivò il giorno che spense la luce definitivamente nella vita di Rita. Era domenica 19 luglio, si stava preparando per andare a messa, la TV era accesa. Seppe dalla televisione della strage di via D'Amelio a Palermo. S'interruppero le trasmissioni per dare la notizia. Sentì come se il cuore stesse per eploderle e cessare di battere. L'assalì una sensazione peggiore di quando seppe della morte di suo padre e di suo fratello. Questa volta la diciassettenne Rita Atria sentì che il prezzo da pagare per rimanere in scena sul palcoscenico della vita era divenuto insostenibile. Non resistette al dolore, cercò di cacciar via dalla sua anima i pensieri più funesti, ma non ci riuscva, la bestia era sempre lì. L'assenza e la mancanza della voce rassicurante dello zio Paolo la fece sprofondare nell'abisso della paura. Assistette impietrita davanti alla TV le immagini dei funerali svoltisi nella Chiesa di Santa Maria Luisa di Marillac, migliaia e migliaia di palermitani e di siciliani erano lì a urlare a squarciagola «giustizia». I familiari di Borsellino avevano rifiutato i funerali di stato. Pianse a dirotto quando ascoltò inebetita le parole di perdono di Rosaria Costa vedova dell'agente di scorta Vito Schifani, ucciso nella strage. Tra le lacrime riconobbe il viso disfatto di Agnese, zio Paolo gli aveva parlato spesso di lei e di Lucia, Manfredi e Fiammetta, avevano pressapoco la sua età. Quando spense la TV si spense ogni velleità di stare al mondo. Scese il buio. Precipitò nello sconforto. Aveva paura di tutto, anche del gesto estremo, ma purtroppo si convine che fosse l'unica via d'uscita da quel tunnel. Due giorni dopo, il 26 luglio, Rita Atria si gettò dal settimo piano del palazzo in viale Amelia 23  in cui viveva, nel popoloso quartiere Tuscolano. 

I funerali della diciassettenne si celebrarono a Partanna nella stessa chiesa in cui si sposarono suo fratello Nicola e Piera. Ma anche nell'ultimo viaggio Rita fu sola. Né la madre né il paese parteciparono alla sua commemorazione. A distanza di qualche mese la stessa Giovanna Cannova, sua madre, distrusse con un martello la lapide della figlia posta sulla tomba di famiglia, per cancellare la presenza scomoda di una «Fimmina lingua longa e amica degli sbirri» che secondo lei non riuscì ad allinearsi ad una condotta d’onore. Per lungo tempo la memoria di Rita non trovò pace, e per molto tempo la sua tomba non ebbe una foto che ricordasse la “picciridda”, seppellita nello stesso cimitero insieme ad alcuni di quegli uomini che denunciò e che hanno un nome, una foto, un ricordo. Tra le tante frasi scritte da Rita e ritrovate dopo la sua morte, commuove questa: «Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita. Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarci. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi ma anche io senza di te sono morta» 


Il ritorno alla propria identità e la carriera politica di Piera 

Piera Aiello, la cognata di Rita ha vissuto con un'altra identità, fino alle elezioni politiche del 2018 in cui fu candidata ed eletta alla Camera dei Deputati nel collegio uninominale di Trapani-Marsala per il Movimento 5 Stelle. Fu la prima parlamentare nella storia della Repubblica Italiana con lo status di testimone di giustizia. Fu componente della commissione Giustizia e della Commissione parlamentare antimafia. Il 2 settembre 2020, dopo le polemiche sul rinnovo dei vertici dei servizi segreti italiani, annunciò di voler lasciare il Movimento 5 Stelle, semplicemente dichiarando: «Non mi rappresenta più».

Agnese e Paolo
«Era il 1968. Una mattina, mentre andavo all’università, vidi Paolo che attraversava la strada e mi veniva incontro. «Ciao Agnese», mi sussurrò. «Come stai? Ti posso accompagnare? Gradisci?». Gli feci un grande sorriso. Quando parlava, il suo volto si muoveva tutto. La bocca, gli occhi, la fronte. Aveva una mimica davvero particolare. Quella mattina in riva al mare mi innamorai di Paolo. E lui di me. Era come se ci fossimo innamorati per la prima volta, anche se avevamo già la nostra età. Lui ventott’anni, io venticinque. Io gli raccontavo dei miei sogni. Lui mi raccontava le sue storie. Mi ricordo, era vestito con degli abiti semplici, quasi umili direi. Un pantalone e una maglietta, niente altro. Non è mai cambiato in questo. 
Pochi giorni dopo la passeggiata al Foro Italico decidemmo di sposarci. E pure in fretta. Quella scelta scatenò però un terremoto. Tutti ci presero per matti. "Forse ci fu cosa?". Ovvero, forse Agnese aspetta un bambino e quello è un matrimonio riparatore? Naturalmente, allo scoccare dei nove mesi, tutti dovettero ricredersi. E in paese dissero: “Allora, vero colpo di fulmine fu”. 
Tanti anni dopo, il mio abito da sposa, sistemato ad arte, l’ha indossato Fiammetta per il suo matrimonio.
Il giorno che è morto gli hanno trovato le scarpe bucate. Una sua collega mi sussurrò: «Prendi le scarpe del matrimonio, mettiamo quelle». Lui le aveva conservate con cura in una scatola. Ma sono servite a poco, perché Paolo non aveva più le gambe, e neanche le braccia, il suo corpo era stato dilaniato dall’esplosione». 

[Agnese Borsellino - "Ti racconterò tutte le storie che potrò"]