"CIRIOLA": IL PANE CHE PIÙ DI OGNI ALTRO RAPPRESENTA ROMA di Claudio Di Giampasquale

Fino alla comparsa del grano che la città eterna conobbe e importò dalle provincie conquistate, il farro era il cereale più utilizzato. I romani capirono che i chicchi di frumento erano più produttivi e facilmente coltivabili eppoi facilmente liberabili dai residui della trebbiatura con semplice battitura. Ne compresero l'enorme versatilità in cucina e quindi lo considerarono una fortuna per la loro dieta.  Fu così che buona parte dei territori assoggettati a Roma vennero impiegati a coltivazioni e granai con il fine d'assicurare nutrimento, senza distinzioni per gli abitanti della repubblica e poi dell'impero.

Il problema della fornitura di grano, per Roma fu sempre uno dei temi centrali della politica perchè decine di migliaia di contadini privati della terra a causa della guerra, per mangiare dovettero vendere i propri voti in cambio di «panem et circenses» ossia di pane e giochi circensi. Si potrebbe sostenere che tutta la pratica dell'amministrazione capitolina venne modulata sulla duplice esigenza di rifornire di pane e sfamare a sufficienza il popolo, ma anche le centurie delle legioni di stanza ai confini. Dalla soddisfazione della fame attraverso il pane derivava il potere, il pane rappresentò ciò. In sostanza, il pane a Roma era più influente dell'oro. Sembra che durante l’era augustea nel dedalo di vicoli e viuzze dell'antica suburra erano affacciate una marea di "tabernae" dette «pistrinae» cioè botteghe di pane in cui quotidianamente centinaia di sapienti «pistores» (panettieri) impastavano a mano e infornavano quintali di pani e pagnotte di vari tipi, tra cui: i "siligeneus" che erano di grano tenero; i "cibarius" scuri e poco costosi; i "secondarius" e i "furfureus" i primi fatti con le varie farine di cereali meno costosi e i secondi di crusca; e poi i prelibati "adipatus" impastati e cotti con il lardo; eccetera eccetera. 

il pane nell'urbe dopo la caduta dell'impero

Il tempo trascorse, l'urbe caput mundi rovinò in modo drammatico. Venne abusata e sacchegiata crudelmente e precipitò nei secoli bui dell'oblio. Poi si affermò lentamente come città pontificia in epoche grigie e discutibili, sino al riaccendersi delle luci del rinascimento. Tuttavia mai sulle rive del Tevere il pane perse il ruolo di alimento centrale della dieta dei romani e il suo prezzo quasi sempre venne regolato da apposite leggi dello Stato della Chiesa. La qualità cambiava a seconda delle classi sociali, i ricchi nobili consumavano pane bianco prodotto con frumento di grano tenero mentre gran parte del popolo dei rioni, quando andava bene, doveva accontentarsi di pane meno pregiato fatto con altri cereali come il miglio o il sorgo. Il pane era il primo parametro del bisogno primario, quando il prezzo saliva in tutta l'urbe avevano luogo proteste e rivolte.
Anche nel diciannovesimo secolo restò l'alimento fondamentale per sfamare i figli, dire "pane" era sinonimo di sostentamento della famiglia. Il vecchio detto popolare in uso ancora oggi: «Portà a casa la pagnotta» nacque nei rioni capitolini come sinonimo di "concretezza economica" collegato alla remunerazione per la giornata di lavoro in relazione alla necessità. 
Ma alla fine dell'Ottocento e nei primi decenni del Novecento le tecniche di produzione di prodotti di panetteria iniziarono a cambiare grazie alle innovazioni della rivoluzione industriale, in particolar modo furono le macine e le impastatrici meccaniche che resero più agevole e veloce la preparazione, riducendo non poco i costi.
Con l'annessione al Regno d'Italia e la successiva proclamazione a capitale, anche nei rioni capitolini s'affermò la produzione meccanizzata. Di conseguenza aprirono i diversi celebri "panifici storici" che contribuirono gradualmente a formare sia nella città che nelle cittadine della provincia più o meno vicine (in particolar modo Genzano, Lariano, Vicovaro e Velletri) una prestigiosa tradizione panettiera, che diede origine a una specifica "cultura storico-popolare del pane romano" fatta di pani, panini e pagnotte tradizionali, grissini e una strepitosa pizza bianca.

una CROCCANTE e gajarda pagnottella dalla crosta ambrata

Se c’è un pane che più di tutti rappresenta e racconta la storia di Roma, questo è senza dubbio la ciriola, degna rappresentante dall'anima popolare, di lignaggio decisamente meno insigne dell'altro famoso panino romano: la «rosetta» che rappresenta la versione capitolina dell'antico pane austriaco «kaisersemmel» e della milanese «michetta». Questi due tipi di pagnottelle rappresentano un'istituzione non solo alimentare ma anche culturale, ciriole e rosette hanno caratterizzato il pasto e le merende di molte generazioni di romani deliziandoli con farciture di mortadella, salame o formaggi grazie alle loro caratteristiche e amate forme e "segni particolari" .
La cirioletta romana fu originariamente immaginata dai
«fornari tresteverini, regolanti, dé Parione e dé tutti l'antri rioni più o meno a ridosso der fiume» come un panino dalla forma allungata che evidenzia i due estremi appuntiti da sembrare vagamente  «'na ciriola der Tevere», ancor di più quand'è cruda e "spianata in gruppo" pronte per essere infornate.

Quando cotta è un profumato pane dalla crosta ambrata e croccante con un ampio solco lungo tutto il dorso e dentro una mollica particolarmente soffice con un'abbondante «alveolatura», da sbocconcellare con qualsiasi companatico, «ma che có la mortazza è la morte sua». Pesa circa ottanta grammi, si sfalda meno di altri pani ed è più consistente e robusta per le farciture umide o unte come le frittate, le verdure, carni eccetera ed è per ciò che, all'epoca, divenne il supporto dei panini dei lavoratori.

Ma la cirioletta sino alla fine del secolo scorso è stata anche presente su molte tavole romane per accompagnare gli sfiziosi piatti della tradizione. Nella madia una volta rafferma, durava più tempo degli altri pani prima di ammuffire permettendo più facilmente d'essere grattata o recuperata per altri usi, ad esempio per far crostini o tocchetti da servire in zuppe e minestre.
La ciriola proposta oggi somiglia solo nella forma alla sua antenata ma ha poco a che vedere con quella autentica di inizio Novecento, sostanzialmente quasi irreperibile poiché il suo originale sistema di preparazione prima della cottura il cosìdetto «metodo indiretto» richiede ingredienti e tempi incompatibili con i sistemi di panificazione del terzo millennio in quanto necessita di una lunga lievitazione e impiego di materie prime "diverse" nonché la necessità di ampie «celle ferma biga» o spazi predisposti per la fermentazione dei preimpasti. Per dirla in parole semplici: quello della vera ciriola romana era un impasto che sì necessitava di oltre diciotto ore di tempo e maggiore applicazione per organizzare le fasi di lavorazione propedeutiche all'infornamento, ma che alla fine consentivano di sfornare pagnottelle più digeribili e migliori dal punto di vista qualitativo, con una fragranza e un profumo più intenso, che permetteva una maggior durata di conservazione.